SOCIETÀ

Vaccini e cambiamento climatico: il dibattito italiano visto da fuori

Douglas Starr è co-direttore del corso di giornalismo scientifico della Boston University, dove è professore emerito. È autore di The Killer of Little Shepherds: A True Crime Story and the Birth of Forensic Science (Knopf, 2010), un libro che racconta la nascita della scienza forense nel XIX secolo attraverso la storia di un serial killer catturato grazie alle tecniche di analisi scientifica. Il libro gli è valso il premio Gold Dagger nel Regno Unito. Il suo precedente lavoro, BLOOD: An Epic History of Medicine and Commerce (Knopf, 1998) è stato tradotto in sette lingue e racconta di come il sangue umano negli ultimi 4 secoli si sia trasformato in un bene di scambio primario. I suoi scritti sono apparsi su numerose testate, tra cui The New Yorker, WIRED, Discover, Science, Smithsonian, Los Angeles Times e Boston Sunday Globe Magazine.

In questi giorni è a Padova, per portare avanti una ricerca in collaborazione con il Centro di Ateneo per la storia della Resistenza e dell'età contemporanea dell'Università di Padova. Giovedì 24 ottobre ha tenuto un intervento al Corso di dottorato in medicina specialistica traslazionale "G.B. Morgagni", dove ha esposto i suoi lavori.

Professor Douglas Starr, cosa la porta in Italia e qui a Padova in particolare?

Sono qui da ormai qualche settimana per studiare i movimenti anti-scienza e anti-vaccini in Italia e confrontarli con quello che succede negli Stati Uniti. Ho letto molti paper, in inglese e in italiano, e ho intervistato molte delle persone che si sono rese protagoniste del dibattito italiano su come la scienza viene percepita dalla cittadinanza.

Che opinione si è fatto di come le competenze scientifiche vengono integrate nelle decisioni della classe politica italiana?

Qui ci sarebbe molto da dire. Fino a qualche decina di anni fa alla scienza veniva data un’importanza cruciale. Recentemente ci sono state spinte, provenienti da diverse direzioni, che hanno decentrato il ruolo della scienza nella società. Una di queste è venuta da internet e da una certa idea di democrazia che internet dovrebbe contribuire a creare. In internet chiunque può apparire come un esperto. Mi sento di dire che in Italia forse avete ancora meno fiducia nelle istituzioni di quanta non ne abbiamo noi negli Stati Uniti. E internet a mio avviso ha contribuito a danneggiare il ruolo dell’esperto e delle istituzioni. Una volta esisteva il medico di famiglia, la figura a cui ci si rivolgeva per ogni dubbio di natura medica, comprese le vaccinazioni. Oggi la gente si rivolge a internet. In realtà ci sono stati diversi momenti nella storia in cui le persone hanno protestato contro le vaccinazioni. La cosa interessante è che si trattava principalmente di persone poco abbienti, mentre oggi i dubbi sui vaccini arrivano spesso da persone con un buon livello di istruzione e relativamente benestanti. Credo sia perché si sta diffondendo un senso di legittimazione che consente a molti di dirsi “posso gestirla da solo questa faccenda! Sono io che prendo decisioni per me stesso!”, quando invece il più delle volte non si rendono conto che dando per buone le informazioni che trovano in internet non stanno facendo altro che delegare a terzi le proprie decisioni. Questi processi hanno contribuito molto al declino del ruolo dell’esperto nella vita pubblica e credo che la situazione in Italia sia particolarmente critica, perché avete avuto dei veri e propri scandali e le vostre autorità hanno commesso dei gravi errori. Mi riferisco alla vicenda Stamina, quando una terapia assurda è stata somministrata negli ospedali pubblici e le autorità responsabili hanno sostanzialmente detto “sappiamo probabilmente che non serve a nulla ma la sosterremo ugualmente”. Prima di quella ci fu il caso Di Bella, vicenda analoga. E poi il sospetto che le vaccinazioni causino autismo. Questi punti di vulnerabilità hanno preparato il terreno per chi è venuto dopo, nella classe politica, e ha cavalcato credenze infondate come l’anti-vaccinismo, appunto. Oggi fortunatamente la situazione sembra migliorata. L’Unione Europea ha recentemente rilasciato un rapporto che mostra come l’Italia sia tra i quattro Paesi membri in cui la mentalità nei confronti dei vaccini è maggiormente migliorata negli ultimi 5 anni. Forse il peggio è passato.

E cosa ne pensa di come il tema delle vaccinazioni è stato trattato nel dibattito pubblico?

Ho incontrato proprio Roberto Burioni nei giorni scorsi. Credo che quando abbia iniziato nel 2015 la sua campagna di comunicazione fosse importante tracciare una linea netta, che dicesse chiaramente “guardate che esiste una voce della scienza”, perché di fatto in Italia non avete uno scienziato che sia una figura pubblica riconoscibile. Negli Usa ne abbiamo, penso a Neil deGrass Tyson, un astronomo, e a Bill Nye the science guy. E siccome molte delle persone in Italia che hanno dubbi sui vaccini non sono fanatiche, ma sono semplicemente preoccupate, credo che l’approccio di Roberto sia stato davvero intelligente, perché si rivolgeva proprio a queste persone e credo che in quel momento ce ne fosse bisogno.

Ho inoltre parlato con altri che si occupano di comunicazione della scienza e delle questioni sui vaccini in Italia: Fabio Turone, Walter Quattrociocchi, Roberta Villa. So che molti pensano che il modo di esprimersi di Burioni sia troppo duro, “se non credi nella scienza sei stupido”, che il suo approccio ponga una parte contro l’altra, che sia polarizzante, a tratti umiliante. Un paio di giorni fa però ha twittato che ogni stile comunicativo va bene! E so che in passato avrebbe detto che solo il suo approccio era quello giusto. È probabile che anche lui stia evolvendo la sua posizione. Secondo me è giusto che ci sia qualcuno che dica “questa è la scienza!” e qualcun altro che dica “lo so che sei preoccupato, ma queste le sono le ragioni per cui non devi esserlo”. Io non sono di questo Paese e quando vedo Burioni non mi sento minacciato. È un medico che ha studiato virologia per più di trent’anni, che si trova a discutere magari con uno che dice di avere 30 anni, che ha appena letto qualcosa su Internet e crede di saperne quanto lui. Il messaggio che ha lanciato Burioni è stato molto importante, così come credo lo sia quello lanciato da Roberta Villa. Credo che i due approcci siano complementari e anzi è salutare avere diversi modi di dire la stessa cosa giusta.

Se fino poco tempo fa il tema caldo erano le vaccinazioni, oggi si discute molto del cambiamento climatico. Che idea si è fatto di come se ne parla in Italia?

Da quello che ho visto non mi sembra che in Italia ci sia una divisione paragonabile a quella che c’è negli Stati Uniti. Noi abbiamo una forte tradizione che ci dice che fintanto che vengono presentate entrambe le parti di un dibattito, chi è a favore e chi è contro, si è sempre dalla parte del giusto. Il problema sorge quando una parte rappresenta il 98% dei climatologi al mondo e l’altra una manciata di persone assunte dalle compagnie petrolifere. È davvero necessario sentire entrambe le campane? In termini giornalistici in questi casi si parla di falso equilibrio (false balance). Per molti anni i giornalisti americani hanno strutturato il dibattito nella forma del 50-50 e abbiamo dovuto ascoltare persone che non hanno alcune competenze specifiche discutere con persone che hanno trascorso la loro vita a fare ricerca sul clima. Recentemente è venuto fuori che le compagnie petrolifere erano perfettamente a conoscenza degli effetti sul clima del rilascio di CO2 in atmosfera, e l’hanno a lungo tenuto nascosto. Soprattutto io penso che dobbiamo renderci conto che il dibattito va superato, esattamente come non stiamo più a discutere se il fumo provoca o meno il cancro ai polmoni. Che uno creda o no al cambiamento climatico, il livello dell’acqua sta salendo a Miami così come a Venezia sta salendo. Cosa faremo a riguardo?

E cosa ne pensa della linea editoriale, di cosiddetto “giornalismo attivista”, che ha scelto di tenere il Guardian nei confronti dei temi del cambiamento climatico?

Penso che sia legittimo avere diversi modi di fare giornalismo e il giornalismo attivista (advocacy journalism) è uno di questi, molto popolare tra l’altro. Lo trovo un modo di essere onesto con i propri lettori: si dichiara esplicitamente la propria posizione, la si difende e si spiega perché lo si fa. Il New York Times ha un’altra linea, perché ha un’altra tradizione, ma non c’è nulla di sbagliato, fintanto che si è onesti con i lettori.

Spesso il giornalismo attivista viene descritto come volutamente non oggettivo, perché mette in risalto e difende uno specifico aspetto di una questione. Ma nel caso del cambiamento climatico il problema è che il dibattito 50-50 non è un’oggettiva rappresentazione della realtà. Quindi la scelta del Guardian va in direzione di una maggiore o di una minore oggettività nella rappresentazione del cambiamento climatico?

Io tratterei la questione da un’altra prospettiva ancora. Il consenso della comunità scientifica è schiacciante e dunque per me il problema principale è: perché c’è ancora un dibattito sul cambiamento climatico? In questi casi dico ai miei studenti di comportarsi come degli antropologi e chiedersi perché c’è chi non crede al cambiamento climatico. Ci sono degli interessi? Hanno delle forti convinzioni pregresse? Oggi viviamo in un’epoca in cui i fatti non sono sufficienti a ricostruire l’intera storia, occorre identificare anche lo stato emotivo del pubblico e del contesto in cui la storia si colloca. Per un bravo giornalista questo è un fenomeno interessante, che merita di essere indagato con creatività. Oggi sappiamo che raccontare una storia è più importante di riportare semplicemente i fatti. Se riusciamo a raccontare buone storie che raccontano i fatti onestamente possiamo ancora fare un ottimo lavoro.

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