L’allarme arriva sia dalla National Security Agency degli Stati Uniti sia dal National Cyber Security Center del Regno Unito: un gruppo di hacker legati a Mosca è penetrato nei sistemi informatici sia di aziende farmaceutiche sia di centri pubblici di ricerca per cercare di rubare informazioni sullo sviluppo del vaccino contro il coronavirus SARS-CoV-2.
Non entriamo nel merito della notizia. Non abbiamo alcuna possibilità né di confermarla né di smentirla. Di un fatto, però, siamo certi: se viene evocato lo spionaggio industriale, allora significa che gli appelli di una miriade di scienziati di tutto il mondo e delle più prestigiose riviste scientifiche internazionali stanno andando a vuoto. La ricerca del vaccino contro questo virus pandemico non sta andando avanti in spirito di cooperazione e trasparenza ma in spirito di competizione industriale e persino geopolitica e in gran segreto.
Così non va.
Non siamo ingenui. Sappiamo che la ricerca medica alimenta il mercato globale che è ricchissimo. E che chi prima arriva a tagliare un traguardo come quello del vaccino potrà contare su royalties elevatissime. Ma questo approccio può essere giustificato per le imprese private e accettato da chi fa ricerca in o per conto di queste imprese che rispondono alla legge del mercato.
Completamente diverso il discorso per chi fa ricerca in centri pubblici. In questo caso gli imperativi categorici sono due: la ricerca deve essere a vantaggio dell’intera umanità e condotta in assoluta trasparenza. Si tratta id valori – come ci hanno spiegato sia Robert Merton sia Paolo Rossi – che nascono insieme alla comunità scientifica nel Seicento e ai quali non è possibile derogare.
Quei centri pubblici – in Occidente come in Cina o in Russia o, comunque, ovunque nel mondo – che operano in segreto per battere gli altri sul tempo tradiscono questi valori. Con conseguenze sia di tipo etico sia di tipo pragmatico potenzialmente negative.
Chi si occupa di sistemi complessi sa che spesso l’insieme è superiore alla somma della sua parti. Ma anche in sistemi semplici la somma delle parti è comunque superiore o, al massimo, uguale a una sua singola parte. In concreto, in questo momento sono attivi, secondo l’Organizzazione Mondiale di Sanità, almeno 160 progetti di ricerca sul vaccino anti coronavirus, poco meno di trenta sono in fase di sperimentazione sull’uomo. Tutti questi gruppi di ricerca o quasi, privati e pubblici, lavorano in una condizione di segretezza più o meno spinta. Con scarso spirito cooperativo. Se lavorassero tutti insieme, scambiandosi in maniera trasparente tutte le informazioni, la probabilità di ottenere un vaccino in tempi rapidi aumenterebbe notevolmente. Dunque il massimo beneficio per l’umanità in questo settore è la cooperazione non la competizione. È per questo che molti scienziati e le principali riviste scientifiche e, tutto sommato, anche la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità hanno chiesto a più riprese la massima trasparenza per la massima cooperazione. La posta in gioco sono un numero difficile da valutare, ma comunque molto alto di vite umane.
Si tratta, dunque, di una motivazione che ha un carattere sia pratico che etico. Cui se ne associa un altro. Un po’ tutti i paesi hanno assicurato che, nel caso arrivassero primi al vaccino lo metterebbero a disposizione di tutti gli abitanti del pianeta. La realtà ci dice che un po’ tutti i paesi che possono farlo (Italia compresa) stanno prenotando il vaccino (finora solo candidato) per conferirlo in primis alla propria popolazione o addirittura a una parte della propria popolazione.
La competizione e il segreto, dunque, sono finalizzati anche a praticare la cultura de “i miei prima degli altri”. Una logica che, in ambito sanitario, andrebbe superata, perché da oltre settant’anni quello alla salute viene considerato un diritto universale degli umani. Il che non significa avere diritto a non essere malati (su questo la natura ha un ruolo ancora importante), ma avere diritto alle migliori cure possibili che la scienza mette a disposizione.
Nel caso specifico, il vaccino – quando sarà messo a punto – dovrebbe essere messo a disposizione dell’intera umanità a prescindere dal luogo ove si risiede (in un paese ricco e tecnologicamente avanzato o povero e scarsamente attrezzato). Certo, la distribuzione simultanea è impossibile, ma il criterio di selezione non può essere la ricchezza (individuale o del paese cui si appartiene), bensì la necessità valutata nella maniera più oggettiva possibile. Dunque primi non gli italiani o i cinesi o gli americani, ma prima le fasce più a rischio.
È chiaro che, detta così, questa assume le sembianze di un’utopia ingenua. Tuttavia i ricercatori che operano in centri pubblici che già si sono espressi a favore di questa utopia devono continuare a farsi sentire e, semmai, alzare la voce. Perché questo deve essere in campo sanitario l’obiettivo finale: l’universalità delle cure.
Finché le informazioni scientifiche in campo biomedico saranno oggetto della cupidigia delle spie piuttosto che liberamente a disposizione di tutti i ricercatori, il valore di quella che i bioeticisti chiamano della massima benificialità (i biomedici che devono perseguire il massimo beneficio per i propri pazienti) resterà un impegno scritto sulla sabbia. Pronto a essere cancellato dalla prima onda. Anche dalla prima onda pandemica.