Tutto è finto a Venezia: il romanticismo, l'unicità dell'esperienza, i gondolieri che cantano “O’ sole mio”, il campanile (ricostruito nel 1912 dopo il crollo del 1902), i cavalli di S. Marco che sono copie (gli originali sono stati rimossi dalla Basilica per salvarli dall'inquinamento che divorava il bronzo).
Nello stesso tempo, tutto è vero: il Palazzo Ducale è quello originale, gli affreschi di Ca' Rezzonico sono davvero di Giambattista Tiepolo, nelle gallerie dell'Accademia c’è “La tempesta” di Giorgione. Soprattutto, dopo il tramonto si capisce che l'essere l’unico centro storico al mondo completamente chiuso alle auto, dove lo sciabordio dell'acqua è il solo rumore notturno, ha un potente effetto sulla nostra psiche. È questa profonda ambiguità di Venezia che ne mantiene il fascino, nonostante i tenaci e ininterrotti sforzi dei miei concittadini per distruggerla.
Come sottolinea Mario Isnenghi nel suo Se Venezia vive, il mito della Serenissima è una creazione ottocentesca, di cui probabilmente il maggiore artefice fu John Ruskin con il suo Le pietre di Venezia.
I viaggiatori dei secoli precedenti facevano tappa nel loro Grand Tour ma spesso non sembravano particolarmente impressionati. Nel Settecento, per esempio, Charles de Montesquieu la definì “città di prostitute” senza commuoversi più di tanto per l'eleganza delle gondole o l’opulenza dei palazzi.
Il racconto lungo di Thomas Mann Morte a Venezia ha certamente contribuito al successo secolare degli alberghi del Lido come il Des Bains e l'Excelsior ma il jet-set aveva abbandonato la città già negli anni Cinquanta del Novecento, nonostante gli sforzi della Mostra del Cinema e della Biennale d'Arte.
I megaflussi turistici sono un fenomeno relativamente recente: ancora negli anni Sessanta il centro storico aveva oltre centomila abitanti, una forte classe operaia al porto e nelle fabbriche della Giudecca, figure sociali oggi conosciute solo attraverso le stampe d'epoca, come l'uomo del ghiaccio con il suo carico avvolto in un sacco e portato a spalla, l'arrotino, il pescatore che girava con un cesto di vimini offrendo pesce freschissimo, le merlettaie o le “impiraresse” che infilavano collane sulla porta di casa.
I turisti venivano d'estate, nonostante le zanzare (in Morte a Venezia si parla addirittura del colera) e si tenevano alla larga nei lunghi mesi piovosi tra ottobre e marzo, flagellati dall'acqua alta (che poi sarebbe stata l'occasione per la più grande opera di corruzione dell'Italia del dopoguerra, le dighe mobili chiamate Mose, iniziate negli anni Settanta e solo oggi operative). Bar e ristoranti della città erano spesso attività stagionali, i Bed & Breakfast non esistevano ma c’era un capiente Ostello della Gioventù, le cosiddette grandi navi non si erano ancora affacciate nel bacino di S. Marco.
“ il mercantilismo rapace della decaduta regina dei mari interveniva spiacevolmente a sciogliere la magia La morte a Venezia, Thomas Mann
Le cosiddette grandi navi hanno ben poco in comune con ciò che solcava i mari fino a trent'anni fa: sono piuttosto alberghi galleggianti, con decine di bar, ristoranti, piscine, negozi, casinò. Hanno migliaia di uomini di equipaggio, dei quali solo un'infima minoranza ha a che fare con la navigazione: il resto sono cameriere addette alle stanze (per convenzione chiamate cabine), baristi, cuochi, spesso di paesi dove c'è abbondanza di manodopera a basso costo, come le Filippine. Ogni giorno ne approdano a Venezia cinque o sei, vomitando alcune decine di migliaia di frettolosi escursionisti nel triangolo S.Marco-Rialto-Accademia.
Questi si aggiungono, naturalmente, ai flussi normali di viaggiatori che arrivano via auto, treno o aereo e formano la maggioranza di quelle 80-100.000 persone che ogni giorno riempiono la città, aggiungendosi ai circa 50.000 residenti rimasti. Se quarant’anni fa c'erano circa 30.000 persone che abitavano a Venezia e ogni giorno andavano a lavorare in terraferma, prevalentemente nelle fabbriche di Marghera, oggi le fabbriche sono scomparse ma ci sono 30-40.000 persone che dalla terraferma si spostano ogni giorno per lavorare a Venezia, dove la casa è diventata un sogno per chiunque abbia un reddito medio-basso (i prezzi d'acquisto avevano superato i 10.000 euro al mq già una decina d'anni fa). In compenso, chiunque possedesse una casa di famiglia l'ha messa a disposizione su Airbnb, spesso abbandonando i posti di lavoro precedenti per dedicarsi a questa più lucrosa attività.
Tutto questo, naturalmente, è parte di processi che hanno investito non solo Venezia ma Barcellona, Parigi, Londra o New York: qui sono semplicemente più visibili perché la città non è più una capitale dal 1797, e quindi non ha un'infrastruttura industriale, finanziaria o di uffici governativi come le altre grandi mete del turismo mondiale che abbiamo citato. Questi processi hanno investito la città con particolare violenza per l'inettitudine della politica, per la completa incapacità delle amministrazioni che si sono succedute negli ultimi trent'anni, di regolamentare, o anche solo frenare l'invasione. Il centrosinistra ha una responsabilità particolarmente pesante in questo.
Cosa ci riserva il futuro? In assenza di avvenimenti clamorosi, come una nave da crociera che investa e distrugga la Punta della Dogana o decida di arenarsi nel mezzo del canale della Giudecca, ben poco cambierà. Quando si pensa che il limite sia stato raggiunto, che peggio di così non possa andare, nuovi charter atterrano, nuovi alberghi vengono aperti, nuove pizzerie nascono. In fondo, un miliardo di cinesi, un miliardo di indiani e 300 milioni di americani devono ancora provare il brivido di mettersi in coda per entrare frettolosamente a guardare i mosaici di S. Marco, che nella replica di Las Vegas non sono stati inseriti.