CULTURA

“Vice”, l’America di Cheney raccontata come una soap

Per otto anni, Lady Macbeth ha regnato alla Casa Bianca. Una donna brillante e ambiziosa, in grado di trasformare un imbelle etilista nel primo vicepresidente degli Stati Uniti capace di imporsi sul presidente. O almeno, questa è la tesi di Vice (L’uomo nell’ombra è il superfluo sottotitolo italiano), l’opera con cui Adam McKay punta ad imporsi agli Oscar 2019.

Il “vice” che oscurò il suo capo è Dick Cheney, che dal 2001 al 2009 affiancò George W. Bush per due mandati. E la moderna Lady Macbeth è sua moglie Lynne, presentata come l’artefice di uno dei più potenti (e meno vistosi) politici della storia americana. Vice narra la vicenda personale e pubblica di Cheney nell’arco di cinquant’anni, dalla giovinezza segnata da studi zoppicanti alla formidabile ascesa politica sotto l’ala di Donald Rumsfeld, che trasmetterà all’allievo cinismo e sete di potere con tale efficacia da esserne, alla fine, vittima lui stesso. A Hollywood Vice è uno dei possibili trionfatori alla premiazione del 24 febbraio. Ha ottenuto otto nomination, distribuite in modo uniforme tra riconoscimenti principali (film, regista, sceneggiatura originale), al cast (Christian Bale attore protagonista, Amy Adams e Sam Rockwell non protagonisti, nei ruoli della moglie Lynne e del presidente Bush) e tecnici (trucco e montaggio). Meglio hanno fatto solo Roma e La favorita.

Fin dall’inizio, Vice rifugge dubbi e mezze tinte, e presenta il protagonista secondo le coordinate più estreme della narrazione liberal dell’America degli anni Duemila. Arcigno e sfuggente, laconico e poco appariscente, Cheney persegue un razionale disegno di progressivo esautoramento delle istituzioni legittime, poggiando la propria azione su teorie giuridiche che esaltano l’autonomia e l’insindacabilità del potere esecutivo. Cheney sarebbe cioè l’autore di una specie di golpe bianco condotto nell’apparente legalità, senza bisogno di colpi di mano, ma sfruttando la debolezza del presidente e il clima di emergenza scaturito dall’attacco dell’11 settembre. Archetipo dell’uomo di potere che non crede in nulla se non nel potere stesso, il protagonista appare come il perfetto esecutore di un patto politica-affari che spinge gli Stati Uniti alla “guerra al terrore”, con le azioni in Afghanistan e Iraq e la sostanziale invenzione dell’Isis, per inseguire un facile consenso popolare e, soprattutto, per assecondare gli interessi della multinazionale petrolifera Halliburton di cui Cheney è al vertice durante gli anni Novanta. Unico tentativo di opposizione, nello staff, è quello del Segretario di Stato Colin Powell, che alla fine soccombe alla ragion di Stato e presta il suo volto popolare alle menzogne della coppia presidenziale e di Rumsfeld, Segretario alla Difesa.

Già autore televisivo per il Saturday Night Live, McKay è passato da lungometraggi comici demenzial-sempliciotti a un film importante come La grande scommessa (2016), per il quale il regista ha ottenuto l’Oscar per la sceneggiatura non originale: un tentativo di spiegare, con toni grotteschi, la catastrofe economica e sociale innescata dai mutui subprime. McKay è una specie di Michael Moore al contrario. Se il regista di Bowling a Columbine maschera da documentari i suoi pamphlet, McKay utilizza il registro della finzione stravolgendo il genere della commedia drammatica con continui interventi di straniamento: una voce narrante tutt’altro che neutra (e alla fine del film capiremo perché); interruzioni nel flusso narrativo, con fermo immagine, didascalie, domande o considerazioni dirette allo spettatore, parentesi lirico-ironiche (come il dialogo in linguaggio parashakespeariano tra Cheney e la moglie in camera da letto), un falso finale (Cheney che si ritira a vita privata) che si rivela la sarcastica introduzione all’ascesa alla vicepresidenza; una conclusione di puro metacinema, in cui è lo stesso Cheney a rivolgersi al pubblico, e un gruppo di personaggi visti in alcune scene precedenti si accapiglia sul valore e l’attendibilità del film.

Come Oliver Stone nel suo W., McKay sposa la linea di ricostruzione degli otto anni di Bush-Cheney scolpendo i protagonisti con il piccone. Bush è un ex ragazzotto credulone, eletto alla Casa Bianca grazie all’azione di una lobby politico-giudiziaria decisiva per assegnargli la vittoria nel conteggio finale contro Gore, e totalmente passivo di fronte alla progressiva erosione del suo potere da parte del vice; Cheney è la spietatezza pura del professionista del potere, incrinata solo da due fattori: la salute incerta (gli infarti ne costellano la carriera) e l’amore per la famiglia, che lo induce a non correre da presidente per proteggere la privacy della figlia minore, omosessuale (ma quando a candidarsi sarà la maggiore, “Vice” vincerà ogni scrupolo e ne sosterrà la campagna anti matrimoni gay). Un cinismo trasfuso, fin dalla giovinezza, dall’amatissima moglie Lynne, dipinta come la vera responsabile della scalata del marito.

Un protagonista della storia recente, quindi, demolito innanzitutto sul piano morale: vengono citati, tra gli altri, l’episodio dell’incidente di caccia (Cheney ferisce accidentalmente un compagno, ma non si scuserà mai) e il trapianto di cuore che subisce nel 2012 (quando affermerà, pur ringraziando la famiglia dell’anonimo donatore, che considera l’organo semplicemente come il suo nuovo cuore, e non pensa mai alla persona da cui è stato espiantato). Ma, anche ammettendo che Cheney sia stato un politico più immorale e legato a interessi privati della media dei suoi predecessori, e riconoscendo l’esito tremendo degli interventi militari, basta questo a tracciare la biografia di un uomo tanto decisivo per un decennio della storia americana, e spiegare gli otto anni di presidenza di Bush junior? E il ritorno trionfale del cinismo al potere, dopo i due mandati di Obama, come si concilia con una visione così salda e priva di chiaroscuri del confronto tra bene e male? Di Vice, allora, bisogna apprezzare le eccellenti qualità di realizzazione: un cast perfetto sorretto da un trucco impressionante, una regia senza un cedimento, un montaggio che prende per mano lo spettatore e lo accompagna attraverso studiate accelerazioni e pause di riflessione, la vis comica che non viene mai meno. E un finale da maestro della commedia brillante, nel quale lo stesso McKay, cui l’autoironia non manca, sembra difendersi dalle accuse di parzialità rivendicando un’accuratezza da testimone che è proprio complicato riconoscergli. In fondo, la visione geopolitica di McKay è riassunta tutta nell’ultimo dialogo dopo i titoli di coda, che non riferiamo. Ma il senso è: le reazioni del popolo ai drammi nazionali sono di due tipi. O ci si scanna tra fazioni, o si va al cinema a vedere un filmaccio.

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