
Una scena di "Flow" di Gints Zilbalodis
Un cartone animato con protagonisti un gatto, un cane, un capibara, un lemure e un serpentario che si rifugiano su una barca per sfuggire a una colossale inondazione, che in apparenza non ha lasciato superstiti umani. Cinque animali che si muovono, miagolano, guaiscono, gorgheggiano, reagiscono come bestie vere. Non indossano buffi vestiti, non vanno al ristorante né guidano razzi spaziali, non possiedono voci umane grazie ad attori-star dall’accento ironico e ben riconoscibile, e quindi non intessono dialoghi né compiono ragionamenti. Non sono catapultati in uno scenario d’azione estrema, né frullati da un montaggio ossessivo e musiche lisergiche.
Flow, il lungometraggio indipendente del lettone Gints Zilbalodis, è un’opera rivoluzionaria non solo per aver ottenuto il premio Oscar con un budget (meno di quattro milioni di dollari) che è trenta o cinquanta volte inferiore, nel suo genere, a quello delle produzioni delle grandi case hollywoodiane; lo è, soprattutto, perché rappresenta un modello di animazione in completa antitesi con la cultura imposta dai canoni commerciali degli ultimi anni. Non insegue né la nevrotizzazione esplosiva della visione cui sono sottoposti i minorenni di oggi (dagli zero anni in su), né l’ammiccamento morale ed emotivo in ossequio al conformismo dominante: niente patetismi, ironie di grana grossa, manicheismi, nessun obbligo di selezionare i personaggi secondo criteri diversi dalla forza drammaturgica.
Di Flow si è parlato, ma non abbastanza. È un’opera che lascia sconcertati coloro che credono ancora che animali e animazione (e più in generale animali e cinema) formino un’addizione a risultato costante: umanizzazione, comicità brillante, azione, lacrimucce, totale assenza di naturalismo. Il suo successo al box office mondiale (finora oltre 36 milioni di dollari, cifra contenuta rispetto ai colossi dell’animazione ma elevata in rapporto alle risorse impiegate e alla sua totale eterodossia) si deve alla trasversalità, all’essere un film che si rivolge a un pubblico indifferenziato, e non certo a specifici target familiari, infantili o adolescenziali.
Come per tutti i classici (lo è già), Flow ha fatto sorgere una moltitudine di interpretazioni. Sembra evocare scenari apocalittici, con città sommerse e umanità spazzata via, ed inevitabilmente si pensa al riscaldamento globale. Suggerisce valori universali, la fratellanza tra diversi, se vogliamo dare questo significato alla solidarietà che si crea tra specie animali per sfuggire alla catastrofe. Può indurre a riflettere sulla caducità dell’umano, simboleggiata dalle suppellettili e gli ornamenti, privi dei proprietari travolti dall’inondazione, di cui si servono gli animali.
Eppure, forse, il modo migliore per godersi questo capolavoro artigianale non è il lambiccarsi su metafore da decifrare, ma lasciarsi trasportare, senza troppe domande, dal ritmo ipnotico, la lentezza estrema alternata ad accelerazioni improvvise, l’emozione che portano il fruscio della brezza o la caccia ai pesci sulla superficie dell’acqua, la carica dei cervi o l’incombere della balena. In Flow la natura torna al centro assoluto della narrazione come lo è stata, forse, in poche occasioni nell’animazione degli anni Duemila. Non solo perché gli esseri umani proprio non ci sono, e gli animali non parlano ma emettono suoni, ma perché l’intero sviluppo narrativo è ideato in funzione dell’ambiente e non dell’uomo. Pause, silenzi, prorompere di scrosci o latrati, emozioni che nascono da pulsioni elementari: sopravvivenza, stupore, paura, fame, secondo un codice animalesco che ci viene immediatamente imposto, e di cui dobbiamo accettare le regole.
Spettatori alieni di un mondo senza umani, assistiamo a un’anti-saga fascinosissima, in cui gli eroi sono esseri viventi guidati solo dall’istinto, sullo sfondo di una civiltà scomparsa: in assenza di uomini e donne, l’umanità è rappresentata dagli straordinari edifici deserti che ammiriamo, sommersi e in rovina (in prevalenza palazzi in stile Sud-Est asiatico, o templi simil-precolombiani), scenari grandiosi che, nella loro desolazione, non contraddicono ma rafforzano l’idea che l’umano è annientato, e spetta agli animali costruirsi un’arca senza Noè. Ma anche l’animalismo, la cui onda oggi è impetuosa quanto quelle del maremoto di Flow, è una facile tentazione che Zilbalodis rifiuta di compiacere, dimostrando ancora l’indifferenza alle correnti in auge.
Perché gli animali di Flow non sono simpatici né antipatici: non si può certo dire che manchi loro solo la parola, perché non imitano l’uomo, sono animali e basta. L’eccezione è il gatto protagonista, icona del film, deus ex machina e motore della narrazione, più accattivante per motivi evidenti (in un’opera così asetticamente neutrale verso mode e stilemi è necessaria almeno la concessione di un protagonista che susciti empatia). Flow rappresenta l’animazione nella sua accezione più vasta, non come genere, ma come tecnica di narrazione, plasmabile per tutti i tipi di racconto, di pubblico, di emozioni. E colloca il suo creatore in quella nicchia di autori che si ostinano a ribellarsi al destino bipolare che, per i kolossal del settore, sembra inevitabile: modello turbo-Marvel, il cui obiettivo è stordire il giovane-giovanissimo spettatore con effetti, suoni, accelerazioni come costante stilistica autosufficiente; o modello neo-Disney, la spasmodica ricerca di modernità attraverso l’inserimento obbligato di temi e protagonisti che rispecchino l’intera gamma del genere umano, in cui a contare non è la forza della narrazione, ma l’ansia di inseguire temi sensibili e personaggi riparatori. Flow non insegue mode, non risponde ad obblighi, non si preoccupa di intrattenere con la rapidità, né di essere dotato di morali cristalline e finali a tutto tondo. Suscita emozioni elementari grazie alla bellezza e alla semplicità: un risultato, nel mondo in cui viviamo, semplicemente rivoluzionario.