SOCIETÀ

Vincolo di mandato: tra Costituzione e principi di democrazia

Ogni tanto se ne parla, e non solo da parte del MoVimento Cinque Stelle per cui è uno storico cavallo di battaglia: ultimamente persino nel Pd umbro si discute di limitare una certa tendenza dei nostri rappresentanti del popolo a ‘cambiare casacca’. Un fenomeno che secondo la fondazione Openpolis nella presente legislatura ha riguardato 80 parlamentari: oltre l’8% del totale in meno di due anni. Come è noto l’art. 67 della Costituzione stabilisce che “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, ma a sua volta il fenomeno del trasformismo rischia di allontanare i cittadini dalle istituzioni. Come uscirne? Lo chiediamo a Sergio Gerotto, docente di diritto pubblico comparato presso l’università di Padova.

Professor Gerotto, il divieto di mandato imperativo è presente solo in Italia?

“È sostanzialmente riconosciuto nelle costituzioni di quasi tutti i Paesi democratici. Certo, c’è qualcosa che assomiglia al mandato imperativo nella costituzione cubana e in quella della Corea del Nord, ma non mi paiono proprio esempi da seguire. Nelle democrazie ci sono solo rarissime eccezioni: nella seconda camera tedesca ad esempio, il Bundesrat, vige il principio in base al quale i rappresentanti sono delegati dai Länder, quindi possono essere revocati in qualsiasi momento. Nel Bundestag c’è però il divieto mandato imperativo. Tale norma è talmente diffusa che la Commissione di Venezia, organo consultivo del Consiglio d’Europa, la ha sempre posta come uno dei requisiti per verificare il passaggio alla democrazia dei Paesi che chiedono l’ingresso nell’Ue. Insomma il quadro è tale che c’è da chiedersi se il mandato imperativo sia compatibile con le istituzioni democratiche”.

Perché il divieto del vincolo di mandato è così importante?

“Perché la possibilità dell’eletto di agire secondo coscienza e al riparo da vincoli esterni è una conquista della democrazia contemporanea. La norma va compresa nel contesto dello cosiddetto statuto delle libertà parlamentari previsto dalla Costituzione agli articoli 65-69, pensati per dare all’eletto la possibilità di agire con tutta la libertà possibile.  Poi ragionerei sul perché periodicamente si torna a evocare questo tema”.

Perché chiedere alla Costituzione di fare quello in cui i partiti non riescono, cioè fidelizzare i propri membri?

Forse perché in Italia le maggioranze sono particolarmente instabili, soprattutto al Senato.

“Siamo però sicuri che il mandato imperativo risolva problema, e soprattutto che la stabilità sia da perseguire anche a scapito dei principî fondamentali del nostro assetto democratico? Ancora: perché chiedere alla Costituzione di fare in via obbligatoria quello in cui i partiti non riescono, cioè fidelizzare i propri membri? Anche perché potrebbe essere che il transfuga sia più coerente del suo stesso partito, che magari ha cambiato linea politica. Certo è un po’ schizofrenico da una parte chiedere di potenziare la democrazia diretta e dall’altra prevedere istituti che danno più potere ai partiti. Si rischia il passaggio dall’‘uno vale uno’ all’‘uno vale zero’”.

Cosa fanno gli altri Paesi in caso di voltafaccia?

“Una organica normativa antitransfughismo porrebbe una serie di problemi: l’eletto che migra in un altro gruppo o partito perde la carica automaticamente o deve prima essere espulso?  Da chi e con quali procedure?  Chi subentra? E se ci si limita semplicemente a votare contro i provvedimenti del proprio partito? Come si vede l’effetto principale sarebbe di rafforzare gli apparati di partito a scapito dell’istituzione parlamento, con la conseguenza ulteriore di deresponsabilizzare gli eletti. Una vera e propria normativa antitransfughismo si trova ad esempio in Sudafrica, ma è soprattutto uno strumento di tutela per i partiti: lo ‘spostamento’ deve riguardare almeno il 30% dei componenti di un gruppo parlamentare”.

Sono possibili altri strumenti, come la previsione di multe o sanzioni?

“In Spagna dopo il 1978 ci sono stati accordi spontanei tra i partiti, i quali ad esempio si impegnano a non utilizzare gli eletti in altre formazioni in alcune commissioni e a non conferirgli determinati incarichi. In generale tutto quello che un partito può fare per far valere la propria disciplina interna può andare bene, purché rientri negli ambiti stabiliti dalla Costituzione. Nel caso delle sanzioni a cui accennava siamo un po’ al limite e non sono sicuro che sarebbero compatibili con l’art. 67”.

Rimane il problema di garantire la stabilità dei governi.

“Ci sono diversi modi e strumenti, ricordando però che un sistema parlamentare come il nostro è intrinsecamente instabile in quanto, a differenza di quello americano o svizzero, si basa su un vincolo fiduciario tra parlamento e governo. L’instabilità, finché è fisiologica, non deve essere vista per forza come un aspetto negativo. Quando diventa patologica si può intervenire con correttivi: la soluzione però non è mai in un unico provvedimento, magari copiato da un altro sistema. Per avere esecutivi che durano nel tempo non basta una legge elettorale all’inglese o una sfiducia costruttiva alla tedesca: come i medici prima di un trapianto  dovremmo prima valutare la compatibilità di ogni intervento con il nostro sistema istituzionale. Fare un ragionamento di sistema, come fa appunto il diritto comparato”.

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