SCIENZA E RICERCA

Virus per cena? Il legame tra commercio illegale di selvaggina e le pandemie

Un numero crescente di prove punta nella stessa direzione: che il SARS-CoV-2 abbia infettato gli umani attraverso un salto di specie è, ormai, un’ipotesi largamente condivisa dalla comunità scientifica internazionale. Per quanto riguarda il luogo che ha fornito l’occasione dello spillover, è probabile che sia avvenuto in un wet market, cioè uno di quei mercati all’aperto in cui, soprattutto nei paesi asiatici, si usa vendere animali vivi o morti da poco. Un simile ambiente, in cui numerosi esemplari di diverse specie sono ammassati in spazi ristretti e costretti a scambiare liquidi ed effluvi, è l’ideale per virus che cercano nuove sponde a cui approdare per riprodursi e prosperare.

Di recente la rivista scientifica Nature, facendo il punto delle attuali conoscenze sullo scoppio della pandemia causata dalla diffusione di SARS-CoV-2, ha segnalato tre nuovi articoli (per ora pubblicati in pre-print, cioè non ancora sottoposti alla ‘revisione dei pari’) che corroborano l’ipotesi secondo cui l’origine del contagio sia riconducibile al Huanan Seafood Wholesale Market, al quale sono collegati molti dei primi contagi individuati tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020. Quel che ancora rimane piuttosto oscuro, invece, è quali siano stati gli animali ‘ospiti’ di SARS-CoV-2 prima che questo arrivasse all’uomo.

Le possibilità sono diverse: c’è chi parla del procione, chi dello zibetto, chi del pangolino. Specie molto diverse fra loro, ma accomunate da una caratteristica: tutte sono usate, soprattutto in Cina, come selvaggina. Questi animali vengono cacciati, o allevati in grandi quantità (e in scarsissime condizioni igieniche, per non parlare del benessere dei singoli animali), per essere poi serviti come delicatessen nei ristoranti più alla moda, oppure smembrati e venduti a peso d’oro come ingredienti della medicina tradizionale, per le loro presunte proprietà curative.

Questo genere di attività aumenta esponenzialmente il rischio che futuri spillover si ripetano, aggiungendo nuovi capitoli alla lunga saga delle epidemie (e pandemie) di origine zoonotica: tra queste possiamo ricordare, oltre a SARS-CoV-2, quelle causate dai suoi “cugini” SARS-CoV e MERS-CoV, nonché da HIV, ebola, zika e molti altri.

Uno studio da poco pubblicato sulla rivista Cell riporta i risultati di un esteso monitoraggio condotto in Cina negli ultimi anni, vòlto a costruire una dettagliata mappa dei virus che abitano la fauna selvatica sfruttata come selvaggina, così da valutarne la potenziale diffusione e la pericolosità. Mediante una vasta analisi trascrittomica, il gruppo di ricercatori cinesi e australiani ha creato un database che offre informazioni sui virus ospitati dagli animali usati come cibo nei wet market e sui possibili salti di specie tra essi. L’analisi comprende 1941 esemplari provenienti da diverse regioni della Cina, appartenenti a diciotto specie di cinque diversi ordini di mammiferi; i virus patogenici per i mammiferi identificati all’interno del campione sono stati 102, di cui circa un quinto considerati un potenziale rischio per gli umani e gli animali domestici. Come già evidenziato da studi passati, le possibilità di infezione non sono limitate ai coronavirus simili a SARS-CoV-2 (sappiamo che, ad oggi, sono sei le specie di coronavirus in grado di infettare gli umani), ma vi sono molti altri agenti patogeni che potrebbero compiere il salto verso la nostra specie.

Sebbene durante la pandemia siano aumentate l’attenzione e la vigilanza su questi potenziali eventi di spillover, gli autori dello studio di Cell segnalano che, ad oggi, studi di questo genere sulla selvaggina sono ancora poco approfonditi. Per questo motivo l’analisi condotta in questo studio è particolarmente importante: offre un quadro che, seppur non ancora completo, permette di comprendere in maniera più organica i rischi derivanti dalle interrelazioni tra animali selvatici, virus e attività umane.

Nella ricerca, gli autori riportano che «dalle analisi filogenetiche dei virus è emerso che molti di questi presentano stretti rapporti evolutivi con virus che causano malattie in altre specie selvatiche, in diversi animali domestici e anche negli umani; questo espande considerevolmente la loro platea di possibili ospiti». Per di più, prendendo in considerazione la capacità di infettare gli esseri umani e la tendenza a superare le barriere di specie e infettare diversi animali, 21 dei virus analizzati sono stati classificati come particolarmente pericolosi per la salute pubblica. Tra questi vi sono, ad esempio, il virus dell’Influenza A, H9N2, l’Alphacoronavirus 1 e il Rotavirus A.

Poiché le specie selvatiche commerciate in Cina sono molte di più rispetto a quelle prese in considerazione per la costruzione del campione esaminato, gli autori avvertono che la loro stima del rischio patogenico associato a queste attività è probabilmente piuttosto conservativa. Basti pensare al fatto che non sono state prese in considerazione tutte le specie soggette a caccia, bracconaggio o allevamento a livello internazionale. Insomma, se consideriamo tutti i mammiferi esistenti, la varietà dei virus che potrebbero albergare al loro interno (e potenzialmente travalicare i confini di specie) è enorme.

È certamente degno di nota che, tra le numerose specie di virus (conosciute e non) individuate nei mammiferi presi in esame, non siano stati rinvenuti virus imparentati con SARS-CoV o con SARS-CoV-2. Tuttavia, diversi altri coronavirus non hanno mancato di attirare l’attenzione dei ricercatori. Ad esempio, più di un coronavirus che solitamente utilizza come “serbatoio” i pipistrelli è stato individuato con sequenze geniche molto simili in ricci e zibetti. Ciò corrobora la possibilità – ritenuta plausibile da diversi scienziati – che i virus della SARS e della Covid-19 potrebbero essersi modificati durante il passaggio attraverso ospiti intermedi, che potrebbero essere proprio piccoli mammiferi come questi. Sono recenti, inoltre, le notizie di diverse infezioni umane da coronavirus il cui “salto” è stato mediato da cani o da maiali domestici.

Di fronte a tali e tante prove, la risposta non può che essere politica. Se è così evidente che pratiche come l’allevamento e il commercio (spesso illegali) di animali selvatici pone seri rischi di salute pubblica globale, bisognerebbe intervenire tempestivamente per fare in modo che le occasioni di spillover siano ridotte al minimo. In Cina, dopo l’inizio della pandemia, i wet market sono stati chiusi, e la vendita di selvaggina vietata. Ma, come sottolinea su Science Su Shuo, uno dei principali firmatari dello studio, nel resto del Sud-est asiatico queste attività continuano a prosperare. «Il legame tra selvaggina e virus potenzialmente rischiosi è evidente, e i nostri risultati danno importanti indicazioni su quali di questi animali (e i loro virus) potrebbero causare la prossima pandemia o epizoozia». Se non cambiano le condizioni iniziali, oggi particolarmente favorevoli alla diffusione di nuovi patogeni, le future pandemie non saranno solo un’eventualità, ma una certezza. Per questo motivo, la prevenzione è essenziale.

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