SCIENZA E RICERCA

Una vita (di ricerca) dedicata ai gorilla

A 24 anni ha lasciato l’Italia per trasferirsi in Africa. Voleva studiare i gorilla e da allora Veronica Vecellio non ha più smesso di seguirli: prima in Repubblica Centro Africana, poi in Congo e in Gabon. E infine in Ruanda, nel Virunga National Park. Proprio dove la primatologa Dian Fossey ha fondato nel 1967 il Karisoke Research Center per proteggere e studiare i gorilla di montagna in via di estinzione, prima di finire assassinata brutalmente nel 1985.

Al Dian Fossey Gorilla Fund, Veronica Vecellio lavora dal 2005. Ma sono trascorsi oltre 20 anni dal suo primo incontro con uno di questi magnifici primati. E lei – la “Dian Fossey italiana” come viene soprannominata – ha conservato lo stesso entusiasmo di allora. Ci è stato subito chiaro quando l’abbiamo raggiunta per commentare uno studio pubblicato su Scientific Reports e condotto proprio al Dian Fossey Gorilla Fund sulla comunicazione di questi animali e il loro segnale più iconico: il chest beat, il battersi le mani sul petto, tipico dei maschi. E così, inevitabilmente, ci siamo fatti raccontare di più.

«Poter studiare una specie animale nel suo ambiente naturale, senza barriere tra l’osservatore e il soggetto di studio, credo sia il sogno di ogni ricercatore naturalista» dichiara subito a Il Bo Live Veronica Vecellio, che il suo sogno l’ha realizzato. «I gorilla sono una delle poche specie che possono darti questa opportunità: capisci di essere parte della natura e non solo un osservatore... e per me questo non ha prezzo». 

Da oltre 15 anni Veronica Vecellio monitora i gorilla di montagna nel parco nazionale dei Virunga, «esattamente la stessa popolazione studiata da Dian Fossey dal 1967» ci tiene a sottolineare, orgogliosa. «Sono proprio i figli e i nipoti dei gorilla di Dian (Fossey, ndr)! Nel nostro dataset ci sono più di 400 gorilla e – anche se in questi cinque decenni molti sono morti per varie cause - al momento monitoriamo una popolazione di 120 gorilla. Si tratta di una decina di gruppi, che abitano la parte ruandese del massiccio dei Virunga, dove in totale si contano più di 600 gorilla. Dall’altra parte delle montagne, invece, nel parco nazionale della foresta di Bwindi, in Uganda, vive l’altra metà della popolazione. Questo vuol dire che restano poco più di 1000 gorilla di montagna al mondo e al Dian Fossey Gorilla Fund ne proteggiamo una bella fetta e lo facciamo tutti i giorni dell’anno, direttamente in foresta».

La pandemia da Covid-19, però, ha sparigliato le carte e la vita in foresta al fianco dei gorilla di montagna per Veronica Vecellio si è dovuta momentaneamente interrompere. «Le mie visite ai gorilla mi mancano moltissimo: è da quando è cominciata l’emergenza Covid-19 che non vado in foresta» confessa. Il parco di Virunga, infatti, ha chiuso ogni accesso in tutta fretta, a marzo del 2020, per evitare che anche i rarissimi gorilla di montagna potessero contagiarsi con il Sars-CoV-2. Visto che per loro anche solo un raffreddore può risultare letale. La Vecellio dunque non è andata più in foresta, ma il monitoraggio giornaliero non si è mai fermato «grazie alle nostre squadre di rangers» spiega. «Per garantire la sicurezza dei gorilla abbiamo messo in atto regole ferree: abbiamo ridotto il numero di persone e di ore di osservazione; e il personale di campo viene testato regolarmente e vive isolato. Anche se i costi sono aumentati, almeno così siamo sicuri di minimizzare ogni rischio: la sicurezza dei gorilla viene prima di tutto. Così facendo, almeno, siamo riusciti a mantenere costantemente aggiornato il nostro daset con le informazioni fondamentali: nascite, morti, formazione di nuovi gruppi, trasferimenti e così via» continua Vecellio. «Una cosa però voglio dirla: sono grata all’epoca moderna, perché proprio grazie alla connessione internet che raggiunge anche posti remoti, ho potuto ricevere messaggi Whatsapp e foto dai rangers che monitorano i gorilla. E a volte li sento pure in sottofondo durante le chiamate» ride di gusto Vecellio «anche i loro battiti sul petto! Mi mancano molto: a volte mi sento un po’ come una vacchia zia, che vede crescere i nipoti. Magari incontro un silverback (un maschio adulto, ndr.) a capo di un gruppo, che ho conosciuto quando era piccolo ed è una gioia immensa. ‘Eri così piccolo, guarda quanto sei cresciuto!’» si prende in giro bonariamente Vecellio. Ma poi riprende serissima: «io però tornerò in foresta solo quando saremo tutti vaccinati e quando lo riterremo sicuro per i gorilla, che ora per fortuna stanno molto bene».

Prima della pandemia, però, tra il gennaio del 2014 e il luglio del 2016, un team di primatologi tedeschi e americani, guidati da Edward Wright del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropologye, ha studiato la comunicazione dei gorilla di montagna proprio al Dian Fossey Gorilla Fund, pubblicando in questi giorni i risultati su Scientific Reports.

Per due anni e mezzo, il team ha monitorato 25 silverback, ovvero maschi adulti di gorilla, registrando ogni loro chest beat: il gesto iconico di battersi le mani sul petto, tipico di questa specie. Il gruppo di primatologi ha analizzato il suono prodotto da ogni individuo con il suo chest beat, studiandone la durata e la frequenza, e ha confrontato i dati raccolti con le relative dimensioni corporee, stimate tramite le immagini. E ha finalmente potuto decretare, con dati e prove alla mano, che il chest beat dei gorilla silverback è un segnale onesto, con cui i maschi segnalano ai potenziali rivali la loro stazza.

«A dirla tutta, noi osservatori sul campo lo abbiamo sempre sospettato» ci spiega Veronica Vecellio, che abbiamo raggiunto proprio per commentare i risultati di questa ricerca condotta dai suoi colleghi. «Ora però ne abbiamo le prove: i gorilla sulla propria taglia non mentono!». Le dimensioni corporee spesso nel mondo animale riflettono le capacità competitive o di combattimento. «I gorilla vivono in gruppi sociali guidati dal maschio dominante e spetta a lui il compito di proteggere il gruppo, e specialmente i piccoli, da altri gorilla maschi. Essere grossi è quindi un vantaggio: un maschio più grosso fa più paura ai rivali e piace di più alle femmine, è socialmente dominante. Battendosi le mani sul petto i gorilla rimarcano la loro taglia extra large. Inoltre i chest beat offrono un altro grande vantaggio: il suono si sente fino a un chilometro di distanza e i gorilla possono capire con chi hanno a che fare, senza dover arrivare allo scontro fisico, che avviene molto raramente».

I gorilla di montagna sono animali pacifici, lontani dall’immaginario cinematografico che spesso li ha dipinti come “mostri”. Ma ancora oggi sono minacciati dal bracconaggio: un bracconaggio però che speso non è direttamente rivolto a questi primati. «In Ruanda il bracconaggio non mira all’uccisione dei gorilla» ci tiene a specificare Veronica Vecellio, «ma mira ad altri animali che vengono cacciati per la carne. Il problema per i gorilla, però, è che a volte restano intrappolati nelle reti e nelle tagliole che i bracconieri installano per antilopi e bufali. Per questo che le squadre anti-bracconaggio sono sempre molto attive nel distruggere e rimuovere queste trappole. Allo stesso tempo è fondamentale lavorare per campagne di sensibilizzazione e progetti di supporto all’economia locale». C’è ancora molto lavoro da fare, ma «è importante specificare che le attività illegali si sono ridotte tantissimo in Ruanda e questo è un bel successo per la conservazione!» racconta Vecellio con gioia. «Merito del governo ruandese e del lavoro di squadra delle organizzazioni come il Dian Fossey Gorilla Fund, il cui lavoro dipende unicamente da donazioni esterne. Ma la dimostrazione più evidente è proprio la continua crescita del numero dei gorilla di montagna!».

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012