SOCIETÀ

Pubblica Amministrazione, accanimento riformatore senza cambiamento

In un’intervista al Corriere della Sera del 22 agosto 2018 il Ministro della Pubblica Amministrazione Giulia Bongiorno annuncia un nuovo corso della macchina dello Stato dopo “riforme fumose che restano sulla carta”. Il nuovo corso sarà attuato con un disegno di legge denominato “Concretezza”. Si comincia con 450.000 assunzioni entro il 2019 e la lotta all’assenteismo.

Il Ministro Bongiorno è persona preparata e con ottima reputazione professionale e sicuramente sa che massicce assunzioni sono un comportamento tipico di un assetto di Governo che vuole darsi una solida base elettorale per durare nel tempo. Sa anche che la lotta all’assenteismo e un altro annuncio classico di chi vuole rendere credibile il proprio intento riformatore. Non ricordo Ministro della Pubblica Amministrazione che non abbia annunciato qualcosa di definitivo in termini di controllo presenze, badge, tornelli, pausa cappuccino e così via. Bongiorno tiene conto del progresso tecnologico e parla di autenticazione con impronte digitali e iride. Purtroppo quando di questo problema se ne deve occupare il Ministro in persona, gli assenteisti possono dormire sonni tranquilli.

 

Quando di questo problema se ne deve occupare il Ministro in persona, gli assenteisti possono dormire sonni tranquilli

La questione da affrontare è il ruolo della dirigenza. Il Ministro sembra esserne consapevole e propone le sue soluzioni “concrete”. Attualmente la dirigenza non è adeguatamente motivata, sostiene il Ministro, perché si autodefinisce obiettivi facili da raggiungere. Con la riforma della dirigenza interverrà un organismo terzo, continua il Ministro, a definire gli obiettivi e controllarne il raggiungimento. L’intervento di un organismo terzo è un modo scientifico per demotivare la dirigenza ed esautorarla.

Potere e autonomia

l problema dei ruoli direzionali nelle pubbliche amministrazioni non è mai stato affrontato con un approccio che dosi adeguatamente livelli di potere e di autonomia dei politici e del management. Usando un approccio organizzativo, è evidente che spetta al livello politico la costruzione del senso complessivo dell’azione pubblica e al livello tecnico la sua execution. Il potere politico è l’altra faccia dell’autonomia direzionale e deve essere abbastanza forte e concentrato da consentire di affrontare la complessità dei problemi, ma non così concentrato da inibire l’iniziativa, la responsabilità e le competenze della direzione.

I ruoli direzionali sono invece depotenziati con la creazione di autorità esterne alla linea gerarchica di valutazione del personale. Sistematicamente e a prescindere dal colore della coalizione di Governo, il cambiamento e la ricerca di prestazioni migliori, vengono interpretate come un processo giudiziario (trial) presidiato da autorità terze e non come un processo organizzativo (process) presidiato dal management. E’ molto improbabile che questo processo organizzativo venga messo in moto dalla riproposizione di meccanismi di valutazione esterni al ruolo direzionale che viene invece così delegittimato e depotenziato. Lo si è visto anche con i Commissari alla spending review caduti l’uno dopo l’altro dimostrando, se mai ce ne fosse stato bisogno, che l’intervento di autorità esterne alla linea decisionale politica e direzionale si rivela inutile e velleitario.

Riforma continua

L’annunciato disegno di legge riformatore del Ministro Bongiorno pone il problema delle riforme a ripetizione che non diventano mai vero cambiamento, e che sono una delle maggiori fonti di incertezza per i cittadini e le imprese. In Italia si fanno tante, tantissime riforme e si fa poco, pochissimo cambiamento organizzativo. Per questa ragione, parlare di cambiamento organizzativo nelle amministrazioni pubbliche è un po’ imbarazzante.

Fare riforme non implica necessariamente cambiare. Il virus della riforma continua senza cambiamento sembra essersi stabilmente inserito nella cultura politica e amministrativa. Sono quasi quarant’anni che le nostre pubbliche amministrazioni sono sottoposte all’accanimento riformatore attraverso una successione ininterrotta di riforme interrotte che non sono quasi mai arrivate alla fase della gestione. E’ come se un paziente entrasse e uscisse a ripetizione dalla sala operatoria cambiando ogni volta chirurgo, diagnosi e terapia. Nell’accanimento riformatore, come in quello terapeutico, c’è una sostanziale mancanza di rispetto per il soggetto su cui si interviene e soprattutto non c’è apprendimento, non c’è memoria, non c’è cambiamento. Scriveva vent’anni or sono Sabino Cassese tratteggiando questo modo italiano di fare riforme:

Mentre in altri paesi le riforme fanno parte della gestione quotidiana della stato, in Italia esse hanno un’enfasi particolare… sono precedute da articoli di giornale e interviste, con approssimazione, superficialità, senza fare un’accurata diagnosi del problema da affrontare…” Il tutto è accompagnato da una ritualità legislativa: “Se si fa una riforma si deve fare una legge” (Il Sole 24 Ore, 21 dicembre 1998)

Infatti si parte sempre con un disegno di legge. Mai un Ministro che si dedichi a gestire la legge in vigore. Così hanno fatto, per citare gli ultimi, il Ministro Brunetta e il Ministro Madia. Ora con il Ministro Bongiorno, sarà la volta buona?

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