CULTURA

Il manifesto del libero lettore

Alessandro Piperno, francesista noto al grande pubblico per i suoi romanzi (il celebre esordio Con le peggiori intenzioni del 2005 cui seguirono Persecuzione e Inseparabili, che insieme fanno il dittico Il fuoco amico dei ricordi, e il più recente Dove la storia finisce), torna al saggio con Il manifesto del libero lettore (Mondadori 2017, 156 pagine) in cui racconta la sua visione della lettura e della scrittura. E presenta al grande pubblico, a suo modo, otto celebri romanzieri del passato.

Chi è il libero lettore?

Chiunque non sia direttamente implicato con i libri per questioni professionali, e da essi non trae nessun profitto. Ovvero chiunque va a comprare i libri in libreria e li sceglie secondo il suo gusto e la sua passione.

Lei, almeno nel privato, è un libero lettore?

Mi sforzo di esserlo. Non sono assolutamente incline a seguire alcuna moda e anzi ho una certa diffidenza verso quei libri di cui si dice «il più grande romanzo dell’anno» o cose simili. Soprattutto, per quanto posso, mi piace comprare libri, e non mi piace riceverli, perché credo che i libri vadano pagati, e lo credo non perché sono uno scrittore, ma perché il valore delle cose nel nostro mondo passa attraverso il danaro e, se spendi diciassette euro per un libro, sei portato a considerare quel libro qualcosa di prezioso e non hai quei pregiudizi che invece può avere un critico militante.

La funzione della critica letteraria allora qual è?

Non ricordo le parole esatte del famoso aforisma di Oscar Wilde secondo cui per essere un buon romanziere ci vuole del talento invece per essere un critico ci vuole del genio, ma è qualcosa a cui mi attengo. La funzione della critica, ammesso che ne esista una, non è certo quella di dire «questo è buono o questo non è buono», ma è quella di inventarsi un discorso, che molto spesso è alternativo al libro che sta prendendo in esame. Per questo amo la critica degli scrittori: Baudelaire, Proust, Eliot, Leopardi erano critici straordinari. Nella mia pratica di libero lettore però, confesso che non leggo quasi mai le recensioni. Anche in questo esercito il mio diritto alla libertà di lettura: preferisco farmi un giro in libreria piuttosto che aprire la Repubblica, il Corriere e vedere cosa consigliano i critici.

Vanno molto di moda le scuole di scrittura. È davvero possibile insegnare, e quindi imparare, a scrivere? E a leggere, o almeno a leggere in un certo modo?

Non credo che si possa insegnare a scrivere. Si può insegnare del buon gusto nel farlo. Invece credo che insegnare a leggere sia possibile, che non significa insegnare a qualcuno a scegliere un metodo di lettura, ma insegnare ad aprire la mente ai libri. Ci sono però delle pratiche che comprendo ma che non mi sembrano da buon lettore. Una di queste è testimoniata, ad esempio, da frasi del tipo «l’ho divorato» oppure «è un libro molto bello perché è scorrevole». Sono categorie che mi lasciano abbastanza perplesso: non è detto che la scorrevolezza sia di per sé una qualità. Carlo Emilio Gadda non è un autore scorrevole, ma forse è tra i due o tre più grandi scrittori del secolo scorso, almeno tra gli italiani. Il mio maestro, il francesista Enrico Guaraldo, diceva una cosa che io ripeto ai miei studenti: quando sei di fronte a un grande pezzo di prosa e improvvisamente leggi una cosa che proprio ti piace, una frase, uno scorcio, un dialogo meraviglioso, la cosa più bella che tu possa fare, invece di continuare a leggere, è chiudere il libro, farti un panino, andare a giocare a tennis, e lasciare che questa cosa ti decanti dentro.

Quindi pensa che per scrivere ci voglia un talento innato?

Come spesso avviene nella vita, purtroppo o per fortuna, le risposte sono complesse, ma per me sì, è così. Lo stile di uno scrittore, anche se è qualcosa di artificioso, è l’unica cosa vera che ha: lo rappresenta molto più di tutto il resto. Per spiegarlo ai miei studenti, lo paragono ai passi: quando ho gli occhi chiusi e sento qualcuno camminare riconosco i suoi passi, i passi di mia madre, dei miei amici. E naturalmente loro non sanno perché il loro passo abbia quel suono, però è così. Con lo stile di uno scrittore accade la stessa cosa: posso pure sforzarmi di scrivere come Philip Roth o come Baricco, ma in realtà sono condannato a essere quello che sono. Naturalmente tutti abbiamo uno stile, ma non tutti gli stili sono interessanti e quelli che hanno uno stile interessante, secondo me, tendenzialmente ci nascono. Purtroppo la vita è questa.

Alcuni dicono che la forza propulsiva del romanzo si stia trasferendo alle serie televisive. Lei cosa ne pensa?

Io sono uno straordinario videodipendente, ma il discorso delle serie tv che hanno sostituito i romanzi mi sembra uno di quei cliché stantii di cui improvvisamente la stampa si impossessa per dire qualcosa di scioccante. La lettura sollecita delle zone della nostra spiritualità decisamente diverse da quelle coinvolte da una qualsiasi altra rappresentazione, teatrale, cinematografica o di una serie tv, se non altro per il fatto che la lettura è veramente un’arte solipsistica, in cui l’immaginazione è la cosa più importante di tutte, perché il romanziere ti dà qualcosa ma poi sta a te immaginare e c’è quindi uno sforzo più attivo di quanto il cinema o le serie tv non comportino. Per me le serie tv potrebbero soppiantare in qualche misura il cinema, perché hanno una caratteristica che a me sembra molto interessante: attraverso la serialità noi possiamo vedere gli attori invecchiare, morire, possiamo vedere le storie modificarsi a seconda delle circostanze, mentre un film è tutto lì, per quanto sia lungo. Sotto questo aspetto la serie tv assomiglia al romanzo, proprio perché può dare il senso del tempo, e questa è una cosa che mi emoziona molto.

Nel saggio scrive: "Diffidiamo dei demagoghi che divulgano le frottola secondo cui i libri possono cambiare il mondo". I libri allora cosa possono, a parte dare un solipsistico piacere al libero lettore?

Non possono fare altro che questo. Non credo che la cultura o la bellezza possano cambiare il mondo come pensava Dostoevskji. Mi attengo sempre a quel famoso aforisma di Woody Allen che dice che gli intellettuali sono la prova provata di come si possa essere coltissimi ma non cogliere la realtà oggettiva.

Il sottotitolo del saggio è "otto scrittori di cui non so fare a meno". Sono Tolstoj, Flaubert, Stendhal, Austen, Dickens, Proust, Svevo, Nabokov, tutti autori trapassati: ci sono anche autori viventi di cui lei non può fare a meno?

Non credo nell’adagio secondo cui gli autori di tanto tempo fa sono migliori di quelli odierni, in realtà credo che oggi ci siano romanzieri straordinari.

Se le chiedessi di fare dei nomi?

Yehoshua, Amos Oz, naturalmente Roth, Jamaica Kincaid, Vargas Llosa, solo per citare i “pesi massimi”. Tra gli italiani mi piacciono molto scrittori come Michele Mari, Sandro Veronesi, Walter Siti. Credo che la situazione non sia così disperata: trovo ad esempio che Gomorra sia un capolavoro dell’inizio del nuovo millennio, un libro di cui probabilmente si parlerà tra cent’anni. Non sarei così pessimista.

Valentina Berengo

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