SOCIETÀ

Covid-19, tra gli effetti della pandemia anche un probabile calo delle nascite

L’emergenza sanitaria legata alla pandemia da SARS-CoV-2 inciderà probabilmente sulla fecondità umana, ma non nella direzione che storicamente ha fatto seguito ai picchi di mortalità dovuti a guerre, malattie o carestie. Se la reazione ad eventi traumatici di portata mondiale in passato ha visto il ripetersi di periodi di maggiore fecondità, forse anche come spinta simbolica verso una ritrovata fiducia, il nuovo coronavirus non sembra infatti essere accompagnato da quei fattori che tendono a favorire un aumento delle nascite.

Nessun baby boom come effetto quarantena, insomma. Lo scenario è opposto: l’incertezza economica e il ricadere delle responsabilità di cura dei più piccoli sulle famiglie sono elementi che difficilmente spingeranno le coppie, soprattutto giovani, a decidere di fare un figlio. Ad approfondire il rapporto tra Covid-19 e fecondità è uno studio dei ricercatori della Bocconi Arnstein Aassve, Nicolò Cavalli, Letizia Mencarini, Samuel Plach e Massimo Livi Bacci dell’università di Firenze, recentemente pubblicato su Science.

La diminuzione della fecondità, evidenzia lo studio, sarà più probabile nei paesi ad alto reddito, già alle prese con una dinamica di invecchiamento della popolazione che sembra difficile da invertire. Ma anche i paesi a reddito medio basso negli ultimi anni sono andati incontro a cambiamenti strutturali, come le migrazioni dalla campagna alla città e una più ampia accessibilità della contraccezione, che hanno modificato le scelte riproduttive riducendo il numero medio di gravidanze. E, sottolineano gli autori, il confronto storico con le guerre o con le precedenti pandemie, come l’influenza spagnola, presenta diversi limiti perché nel caso di Covid-19 la mortalità infantile e quella delle fasce giovani di popolazione è statisticamente bassa, fattore che non porta i genitori al desiderio di avere altri figli come risposta al dramma della perdita subita o come strategia per aumentare la sopravvivenza della prole.

Abbiamo approfondito lo studio sul rapporto tra Covid-19 e fecondità insieme a una delle autrici dellla ricerca, la professoressa Letizia Mencarini, docente di Demografia all’università Bocconi di Milano, che ha esteso le riflessioni anche al tema dei servizi e del sostegno alle famiglie.

L'intervista alla professoressa Letizia Mencarini tra le autrici dello studio sull'impatto del Covid-19 sulla fecondità. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

"Ovviamente - precisa la professoressa Letizia Mencarini, docente di Demografia all'università Bocconi di Milano - siamo ancora nel periodo delle congetture perché non è trascorso il tempo necessario per poter valutare l’effetto reale di quello che è successo nel periodo del lockdown. L’articolo è stato una reazione a una certa parte della stampa, soprattutto non scientifica, che attribuiva al fatto che le famiglie stessero a casa e le coppie fossero chiuse all’interno delle pareti domestiche degli effetti miracolosi in termini di ripresa delle nascite e pronosticava addirittura un Covid baby boom. Noi, da studiosi, ci siamo chiesti dove fossero gli indizi per questo ipotetico baby boom perché non li individuavamo proprio. Al contrario, in quasi tutti i paesi più sviluppati la fecondità negli ultimi anni sta diminuendo e la crisi del 2008 ha avuto un effetto certamente depressivo sulla fecondità, soprattutto per i giovani perché ha portato a un rinvio delle scelte riproduttive e spesso anche della formalizzazione dei legami sentimentali. La pandemia ovviamente è qualcosa di diverso da una recessione economica anche se probabilmente porterà con sè una crisi ancora più grave di quella finanziaria che abbiamo sperimentato nel 2008 e quindi, da questo punto di vista, ci sono delle similitudini".

Lo scenario economico non sembra quindi favorire la progettualità e l'espansione delle famiglie. Ma c'è anche un altro fattore più strettamente legato al comportamento del virus SARS-CoV-2, vale a dire il basso tasso di mortalità tra le fasce più giovani della popolazione. "Da un raffronto con le grandi epidemie del passato - approfondisce Letizia Mencarini - sappiamo che nel momento di maggiore impatto portavano a una contrazione dei matrimoni e delle nascite ma poi c’era la tendenza a un recupero. Questo era però anche dovuto al fatto che ad esempio le epidemie di peste, ma anche l'influenza spagnola del 1918, incidevano sulla mortalità di tutte le fasce di età, anche dei bambini e degli adulti in età fertile. Quindi c’era poi una reazione a questa situazione e i genitori spesso recuperavano matrimoni rinviati e situazioni in cui non si erano fatti figli o cercavano anche di recuperare i figli o i partner morti. Con il Covid-19 questo non si verifica perché la mortalità è stata veramente relegata, tranne eccezioni che sono molto basse dal punto di vista statistico, a fasce di età più elevate, ad età non fertili. D’altra parte però se si analizza più in profondità la reazione alla spagnola del 1918-1919 si osserva che all’inizio provocò un calo della fecondità generalizzato per molti paesi e il successivo boom delle nascite si confuse con la ripresa successiva alla fine del primo conflitto mondiale".

Il calo della natalità è un fenomeno che nei paesi più sviluppati è in atto da ormai parecchio tempo. Restringendo lo sguardo all'Italia l'ultimo rapporto Istat ha certificato per il 2019 un nuovo minimo storico delle nascite: 420.170 bambini in calo del 4,5% rispetto all'anno precedente. Nei mesi scorsi il presidente dell'Istituto di statistica, Gian Carlo Blangiardo, ha pubblicato un documento che illustra i possibili scenari legati all'effetto del Covid-19 sulle nascite e la previsione peggiore ipotizza che nel 2021 i nuovi nati saranno meno di 400 mila. 

Tornando allo studio pubblicato su Science la professoressa Mencarini spiega che "Gli elementi che noi abbiamo sono in primo luogo la considerazione che nei paesi più sviluppati ormai fare un figlio è frutto di una scelta estremamente consapevole, al punto che probabilmente ci vuole quasi un po’ di incoscienza viste le condizioni del mondo attuale. Una benevola incoscienza che viene un po’ meno in momenti di profondo pessimismo come quelli che abbiamo vissuto nel momento di massimo impatto del Covid. Poi occorre considerare i calcoli economici perché ovviamente i genitori consapevoli sono quelli che si chiedono se possono permettersi di avere un figlio o averne uno in più e come lo accudiranno negli anni successivi. L’incertezza economica legata alla pandemia sicuramente non porta ad un aumento del desiderio di fecondità: su questo ci sono già degli studi e si sa già che le intenzioni di fecondità da qui a un anno sono già depresse sia nel nostro che in altri paesi".

Alle paure di natura materiale si aggiunge l'impatto che la pandemia ha avuto in termini di organizzazione familiare con un forte aumento del carico di cura che è andato a gravare soprattutto sulle donne. "L’altro elemento che incide - scende nel dettaglio la docente della Bocconi - è il fatto che tutti i dati sono convergenti nel mostrare che le donne stiano soffrendo e abbiano sofferto moltissimo di questa situazione perché le madri si sono ritrovate figli di età varia e spesso anche piccoli a casa, senza nessuna possibilità di aiuto da parte della famiglia di origine e senza poter usufruire di servizi o di babysitter più o meno saltuarie. C’è stata una reinternalizzazione quasi completa del carico di cura dei bambini con una grande incertezza anche verso quello che succederà nei prossimi mesi sul fronte della scuola e degli asili. Problemi che sono particolarmente accentuati in Italia ma sono simili in tutti i paesi sviluppati dove comunque gli elementi comuni sono l’aumento del tempo di cura delle donne, difficoltà a conciliare questo carico con gli impegni professionali e una grande difficoltà nella continuazione della propria attività lavorativa perché lo smart working non è di facile applicazione se ci sono dei bambini a casa. E soprattutto è difficile prevedere di riprendere pienamente in presenza a settembre quando non si sa cosa si farà delle scuole".

"Questa - prosegue la professoressa Letizia Mencarini - è una situazione che è in capo alle donne e alle madri in particolare, una condizione molto pesante che difficilmente non avrà un effetto negativo sul desiderio di avere un figlio o di mettere in cantiere nuovi figli. Non parlo degli ultratrentacinquenni perché probabilmente avvertono l’orologio biologico e se avevano deciso di fare un figlio magari lo fanno lo stesso, ma per i più giovani davanti all’incertezza anche economica e talvolta purtroppo in una sopraggiunta situazione economica di difficoltà è davvero difficile decidere di fare un figlio in più. Le previsioni dell’Istat sono drammatiche. Noi non abbiamo fatto previsioni, il nostro lavoro è stato più un discorso generale per sottolineare che queste sono le linee di tendenza però concludiamo l’analisi dicendo che come si svilupperanno queste linee di tendenza dipende moltissimo da quello che la politica sceglie di fare".

In un paese che invecchia si riducono inesorabilmente le persone in età fertile, una dinamica che rende sempre più difficile un'inversione di tendenza. Ma una spinta può arrivare dalla politica perché nella scelta di fare o meno un bambino incide anche il supporto che un paese può scegliere di dare alle famiglie e che nel momento del lockdown è invece venuto fortemente a mancare.

"Si può dare priorità alle famiglie e ai servizi. Durante il lockdown - riflette la docente - non è stato così e sappiamo che quando si è reso possibile il ritorno al lavoro in presenza c’è stato un momento di panico perché le famiglie non avevano supporto per la gestione dei bambini. Le risorse economiche messe in campo adesso sono tante, però servono scelte strategiche importanti che non determinino un ulteriore rinvio delle decisioni riproduttive, andando anche contro i desideri delle persone. Un continuo rinvio spesso conduce anche a una rinuncia di un figlio o di un figlio in più. Io penso che ci sia molto spazio per delle azioni politiche che mettano come prioritario il tema dei servizi, dei bambini e delle donne in un contesto che ha visto le lavoratrici fare più fatica nel mantenere il passo e questo è un tema importante di cui non vanno incolpate le donne. Un altro aspetto che sarà interessante vedere è se ad esempio in Italia dove la parità di genere all’interno delle coppie e nella cura dei figli si sta piano piano espandendo, soprattutto tra le coppie più istruite, tra le coppie dove entrambi lavorano e tra le coppie più giovani, se questo abbia dato una spinta ulteriore alla condivisione dei ruoli e delle responsabilità".

Nei paesi a basso e medio reddito - osserva lo studio - il calo della fertilità osservato negli ultimi decenni a causa di tendenze quali l’urbanizzazione, lo sviluppo economico e l’occupazione femminile non sarà probabilmente invertito in modo sostanziale dalle battute d’arresto dell’economia.

"La fecondità - spiega la professoressa Letizia Mencarini - ha ovviamente dei livelli molto diversi nel mondo: accanto all’Italia che fa poco più di un figlio per donna ci sono paesi dove ancora se ne fanno più di cinque o sei. Non credo però che si possa dire che in ogni parte del mondo la fecondità non sia diminuita, perché c’è stata una spinta a una transizione verso una fecondità più bassa che, oltre a fattori di trasformazione sociale, ha visto un ruolo particolare dei servizi di family planning e l’uso di contraccettivi. Sotto questo aspetto il Covid ha provocato uno scossone molto grosso perché l’accesso ai servizi è stato più limitato e difficoltoso e può darsi che ci sia un momento in cui i mancati aborti e il mancato family planning possa dare un piccolo aumento della fecondità. Ma in realtà ci si aspetta che questa spinta che c’è stata negli ultimi decenni verso il calo della fecondità, con meccanismi e velocità molto diversi tra i vari paesi perché conta lo stadio dello sviluppo economico e conta anche la spinta governativa a mettere dei buoni servizi sanitari e la cura della salute riproduttiva, finisca per essere accentuata dalle conseguenze del Covid. La chiusura generalizzata e la mancanza di opportunità conduce a una recessione che le generazioni giovani finiranno per pagare maggiormente. Ed è difficile che la reazione a tutto questo sia un aumento della fertilità, anche nei paesi meno sviluppati".

Per concludere diamo uno sguardo all'Europa dove i tassi di natalità sono nettamente più bassi nei paesi meridionali, con l'Italia fanalino di coda. "Il caso europeo è molto interessante - osserva la docente - perché c'è una differenza tra l'Europa del centro-nord e l'Europa meridionale con i paesi del sud che hanno iniziato già negli anni novanta ad avere una fecondità bassissima, intorno a 1,3 figli per donna. In Italia era poi leggermente risalita intorno a 1,5 ma non siamo mai ritornati vicino, neanche lontanamente, a quei due figli per donna che assicurano la sostituzione tra le generazioni. Alcuni paesi, come Francia, la Gran Bretagna e la Scandinavia, hanno visto negli anni ’90 un piccolo calo della fecondità dovuto soprattutto al rinvio perché quelli erano gli anni in cui le donne avevano iniziato a lavorare in maniera massiccia, la diffusione dell’istruzione terziaria continuava a salire e i figli si facevano un pochino più tardi. In questi paesi però questi figli perduti si sono recuperati, mentre in Italia non è accaduto. Negli ultimi anni però in Europa non c’è nessun paese che arriva a una media di due figli per donna, anche se ci si avvicina. A livello di conseguenze se da due potenziali genitori nascono in media 1,2 o 1,9 figli è una differenza enorme in termini di numero totale di nascite e anche poi di come questo incide negli anni successivi nella struttura per età. Questo lo vediamo molto bene ad esempio in Francia che è riuscita a mantenere dei livelli di fecondità molto più alti anche perché si è sempre occupata di questo tema, al di là della successione dei vari governi di destra o di sinistra. C’è una politica francese che ha sempre voluto sostenere la fecondità, anche ispirata alla grandeur della nazione, e ha sempre dato degli aiuti economici significativi alle famiglie con due o tre figli, ma ha anche sostenuto molto il lavoro femminile e l’offerta di servizi. Il risultato è che anche la Francia, come tutti i paesi sviluppati, sta andando verso l’invecchiamento ma in modo molto più lento rispetto all’Italia o a Giappone che è messo ancora peggio di noi semplicemente perché non ha apporto immigratorio. A livello di conseguenze demografiche e strutturali "nell’invecchiamento della popolazione - conclude Letizia Mencarini - quel mezzo figlio in più o in meno fa la differenza".

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