CULTURA

La ricerca dell’io nella corrente: Piperno e Scurati romanzieri

Metti un pomeriggio al Festivaletteratura di Mantova e diviene possibile, in qualche ora, rendersi conto della variabilità della forma romanzo. Non del romanzo in genere, cosa invero scontata, ma della forma narrativa che rappresenta un luogo e un tempo precisi (questi, i nostri) e che, sempre, si definiscono in un certo grado di finzione.

A distanza di un’ora tra la fine del primo e l’inizio del secondo incontro, è stato per esempio possibile, quest’anno, ascoltare il racconto del processo creativo di due premi Strega: Alessandro Piperno (lo ha vinto nel 2012 con Inseparabili, Mondadori) e Antonio Scurati (il riconoscimento gli è stato dato nel 2019 per M. Il figlio del secolo, Bompiani).

I titoli delle conferenze facevano già immaginare che, pur calando la riflessione sulle ultime fatiche dei romanzieri, si sarebbe affrontato il tema più generale della scrittura e delle scelte che innervano la creazione narrativa. “Il romanzo non smetteva di crescere” il dialogo tra Alessandro Piperno e Annalena Benini sul suo nuovo romanzo, Di chi è la colpa (in libreria per Mondadori dal 14 settembre), e “Narrare è una forma di esorcismo”, in cui Scurati è tornato a discutere della trilogia in corso d’opera, M, stavolta insieme allo storico Marcello Flores, hanno mostrato come sia possibile raccontare in due modi affatto differenti un pezzo d’eternità (perché questo è quello che di fatto c’è, nei grandi libri).

Piperno approda nuovamente, dopo Con le peggiori intenzioni, il suo esordio brillante, al romanzo classico in prima persona in cui racconta la perdita dell’innocenza di un ragazzino perché questi si trova davanti il mondo, nella sua imprevedibilità e ingiustizia. Cosa spinge un narratore all’io? L’autore rintraccia la risposta nella scoperta di una sua voce particolare: caustica, ironica e tenera insieme. È quella che dalle pagine de Il Corriere, dove spesso scrive su La Lettura, a volte nel parlar d’altro ricade sul racconto personale, e poi ci mette in mezzo il suo amore per il romanzo vittoriano, in particolare per Eliot e Dickens nelle cui storie piene di peripezie esuberanti c’è sempre il piano della presa di coscienza.

Ecco: quest’aspetto, quello profondo dell’indagine dei meccanismi interiori ed esteriori che provocano le azioni, e nuovamente di come queste si ripercuotano sulla psicologia dell’individuo, può essere profondamente scandagliato in un romanzo di formazione siffatto così come in un affresco storico di una stagione passata d’Italia qual è la trilogia M di Antonio Scurati.

Se quindi Piperno guarda vicino, alla sua famiglia vista “di sguincio”, per mettere sulla pagina meccanismi che si rivelano universali indipendentemente dall’intenzione, Scurati sceglie a priori di fare qualcosa di apparentemente inaudito, cioè di ricostruire un tempo pur non avendolo vissuto, anzi di più: un tempo la cui narrazione, fino a un preciso momento storico, è stata fatta solo con un certo sguardo, quasi che fosse proibito guardarci dentro “da dentro”.

Certo, se Piperno nel raccontare la storia dell’io narrante, un adolescente senza nome (un everyman citando Roth), può, e anzi deve, permettersi di raccontarne il pensiero, Scurati nel penetrare la vita di Mussolini si è totalmente astenuto, spiega, dall’immaginarne l’interiorità. La sua trilogia (di cui sono pubblicati i primi due volumi: Il figlio del secolo e L’uomo della provvidenza) vuole essere fedelissima alle testimonianze storiche ma al contempo raccontare il fascismo con gli occhi dei fascisti. Questo, dice, era impensabile fintanto che l’ideologia antifascista era imperante, fintanto che alla domanda “chi siamo?” avremmo risposto irrevocabilmente: “italiani, repubblicani, antifascisti”. Ora, l’assenza di una risposta univoca lascia spazio all’indagine, anche del narratore.

Entrambi i romanzi di Piperno e Scurati, seppur distantissimi per voce, per intenti, per spirito e volontà espressiva, rispondono invero alle domande: chi siamo noi? chi sono io? Piperno spiega che nessuno si salva dalla condanna della socialità, tendendo a far aderire la propria personalità al proprio ruolo, o a quel ruolo che per noi stessi inventiamo. Ecco perché – e questo di cui racconta è il caso – l’invenzione può anche sfociare in impostura, in menzogna. Da qui, il passo verso la colpa è breve, anche se Piperno chiosa: “La colpa non è di nessuno, ma è il frutto di una serie di circostanze”. L’aporia si ingenera, a ben guardare, nel non sapere cosa c’è dietro, cosa è venuto prima, ma nell’affrontare quel che c’è come se fosse ogni volta un inizio. È un dramma di tipo shakespeariano, in cui ci si chiede: chi è lui? l’assassino? un ebreo? un cattolico? un impostore? chi?

Per Scurati la stessa domanda si allarga invece nello spazio del tempo e diviene chiedersi cosa sia la Storia. C’è un legame indissolubile tra i fatti e la narrazione che di essi facciamo e il tramonto di un’egemonia narrativa precostituita permette dunque un’indagine nuova, quella che al romanziere di solito interessa. La Storia per Scurati è il luogo delle risonanze: ciascuno di noi non è il primo né l’ultimo, ma un individuo in marcia con milioni di altri esseri umani, e “insieme a me – dice – ci sono i morti e i non ancora nati”. Continua poi così: “Dove sono io nella corrente? È quello che voglio il lettore si chieda, facendo i conti che l’Italia è stata fascista. Il passato di cent’anni fa e il presente ricadono nel luogo della risonanza?”. Serve, per il romanziere, dunque, un senso vasto della Storia.

Sono più che mai interessanti le parole con cui invece, con la massima sincerità, Piperno chiude il suo discorso, dopo aver attraversato la gran parte dei temi della vita e quindi del romanzo (suo e in generale) – la verità, l’edonismo, l’amore, la colpa, l’impostura –: “Alla fine il protagonista capisce di non aver capito niente – dice – Non c’è salvezza. C’è bisogno di pietà”.

Che sia dunque il ragionamento su un singolo, a tratti reale, personaggio di finzione, o la ricostruzione di un’epoca spostando volutamente il punto di vista senza per questo perdere lucidità sui fatti e colpe, il grande romanziere, chiunque esso sia, non può esimersi da questo: dalla ricerca di un interrogativo e dal racconto di un’esperienza, che mette sul piatto per tutti gli altri, che leggono.

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