SOCIETÀ

Il fragile governo del Libano sull'orlo del baratro economico

Dopo oltre un anno di stallo il Libano ha finalmente un governo, frutto di un complicato (e perciò fragilissimo) accordo tra le varie fazioni che da oltre trent’anni governano il paese. Ma da qui a festeggiare ce ne passa: il Libano sta ballando da anni sull’orlo del baratro economico (secondo la Banca Mondiale la crisi libanese è una delle tre più gravi da 150 anni a questa parte). Dal 2019 a oggi la lira libanese ha perso il 90% del suo valore. Lo stato è in default, sommerso di debiti (arrivati al 174% del Pil) che mai riuscirà a ripagare e incapace, almeno finora, di proporre riforme credibili ed efficaci. Non c’è più carburante: la Banca Centrale libanese ha revocato il piano dei sussidi, ma senza applicare alcun programma di protezione sociale, per tentare di attutire il colpo. Così ai distributori si formano file di chilometri, mentre dilaga il mercato nero e spesso si accendono risse per sperare di strappare qualche goccia di benzina, indispensabile per qualsiasi spostamento in un paese che non ha servizi pubblici. I blackout sono continui: la Banca Centrale non riesce più a garantire i fondi per il carburante alla società elettrica statale, così l’elettricità c’è soltanto qualche ora al giorno, non più di tre, quattro. L’unica è procurarsi un generatore (affittarlo può arrivare a costare l’equivalente di 20mila euro al mese), ma anche quelli vanno a diesel: nel Libano di oggi la ricchezza si può misurare a colpo d’occhio, la sera, dalle case dove filtra un filo di luce. Strade buie: anche i semafori non funzionano.

E gli ospedali sono al collasso. Perché oltre all’elettricità mancano i medicinali essenziali. Non c’è più acqua potabile. E i prezzi delle merci sono alle stelle, l’inflazione viaggia attorno al 158% annuo. Per dire: un kg di manzo fresco, che nel 2019 costava 15mila lire libanesi (pari a poco più di 8 euro) ora ne costa oltre 160mila (quasi 90 euro). L’aumento del prezzo delle uova negli ultimi due anni è stato del 787%. Un kg di riso costa oggi l’equivalente di 11 euro. Gli scaffali dei supermercati sono deserti, a frigoriferi spenti. La distribuzione di cibo è affidata alla buona volontà di qualche organizzazione umanitaria. Mentre aumentano le intossicazioni alimentari causate da scarsa refrigerazione e overdose di alcol. La disoccupazione ha toccato quota 40%: perché oltretutto, senza benzina non si può andare a lavorare. E senza benzina i ragazzi non possono andare a scuola, scuole che ormai stanno chiudendo. Un bambino su dieci è stato mandato a lavorare. Le Nazioni Unite stimano che almeno tre quarti della popolazione libanese viva al di sotto della soglia di povertà. Secondo un recente rapporto dell’Unicef, il 77% delle famiglie non può permettersi di comprare cibo per i propri figli. Chi riesce, lo fa prendendo denaro in prestito. Il Libano era chiamato “la Svizzera del Medio Oriente”: oggi le banche sono in gran parte insolventi. Chi può scappa: insegnanti e professori cercano migliori opportunità altrove (al pari di medici e infermieri), e nessuno li rimpiazza.

L’inchiesta bloccata sull’esplosione al porto

Tutto ciò premesso, la formazione di un nuovo governo è senz’altro una buona notizia, ma non è detto che sia la soluzione. «La situazione è molto difficile. Ma non è impossibile se ci uniamo come libanesi. Dobbiamo unire le nostre mani», ha dichiarato il primo ministro, il miliardario Najib Mikati, dopo aver incontrato il presidente libanese Michel Aoun per la firma del decreto di formazione del governo, che se non altro potrà tornare a trattare con il Fondo Monetario Internazionale per tentare di salvare il salvabile. Perché il Libano non è ferito, è in fin di vita. E non soltanto per via dell’incidente dello scorso anno, la drammatica esplosione al porto di Beirut (4 agosto 2020) che provocò oltre 200 morti, migliaia di feriti e circa trecentomila sfollati. Incidente sul quale ancora oggi nulla si sa, né sulla dinamica, né sui responsabili: l’inchiesta è di fatto bloccata, dopo che il magistrato Fadi Sawan aveva osato coinvolgere tre ex ministri, oltre all’ex premier Hassan Diab, accusati di “negligenza e per aver causato la morte di centinaia di persone”. E a poco sono servite le proteste dei familiari delle vittime. La World Bank ha stimato che quell’esplosione ha causato tra i 3,8 e i 4,5 miliardi di dollari di danni. Il 90% delle importazioni libanesi passava attraverso il porto di Beirut, un flusso che, da un giorno all’altro, si è interrotto. Una paralisi commerciale che ha avuto riflessi pesantissimi non soltanto sui libanesi, ma anche sui rifugiati (il Libano, 6,8 milioni di abitanti, ospita oltre 1,7 milioni di profughi siriani: la più alta concentrazione pro capite al mondo). Lo stesso studio dell’Unicef stima che il 99% delle famiglie siriane in Libano non sia in grado di provvedere al sostentamento dei propri figli. Per non parlare poi della pandemia: oltre 600mila contagi accertati, 8200 vittime e un sistema sanitario totalmente inadeguato per affrontare una simile emergenza.

La zavorra del “sistema confessionale”

La domanda è: riuscirà il nuovo esecutivo a rallentare il collasso del paese? E se l’immagine delle “mani unite” suggerita dal premier Mikati può essere suggestiva, bisogna anche dire che è palesemente falsa.  Nel 1990 il Libano riuscì a porre fine a quindici anni di guerra civile architettando un “sistema confessionale” in base al quale le cariche istituzionali e i seggi parlamentari sono perfettamente bilanciati e distribuiti non tra i partiti, ma tra i principali gruppi religiosi presenti nel paese. Attualmente in Libano i principali sono quattro: i cristiani maroniti, i sunniti, gli sciiti (guidati da Hezbollah) e la minoranza dei drusi, che vive nel Sud Est del paese. Il voto popolare praticamente non conta.  Conta l’appartenenza a uno di questi gruppi. La regola del sistema confessionale prevede che il Presidente della Repubblica spetti ai cristiani, il primo ministro ai sunniti e il Presidente del Parlamento agli sciiti. Spesso sono direttamente i gruppi religiosi, soprattutto Hezbollah, a sostituirsi allo stato garantendo il fabbisogno quotidiano ai propri appartenenti. E nessuno di questi schieramenti è disposto a fare una concessione, un passo indietro, a cedere una porzione del proprio potere per il bene della popolazione. Si spiega così lo stallo di questi ultimi tredici mesi, dall’esplosione che ha polverizzato il porto di Beirut e dalle conseguenti dimissioni del governo, ad interim, guidato da Hasan Diab. Un braccio di ferro tra il presidente Aoun (cristiano) e i vari aspiranti premier (musulmani sunniti) sulla questione del “terzo bloccante” (secondo la costituzione libanese il voto di un terzo più uno dei ministri può far cadere l’esecutivo). Aoun ha tentato in ogni modo di ottenere la nomina non di 8 ministri (un terzo esatto del totale di 24), ma di 9, rifiutandosi di firmare qualsiasi altra proposta. Un calcolo di personale opportunità e di convenienza (vuole che il prossimo presidente sia suo genero, l’ex ministro degli esteri Gebran Bassil), mentre il paese sprofondava.

Lo stallo, a quanto pare, è stato superato con la nomina di due ministri cristiani sì, ma “indipendenti”, dunque non alle dirette dipendenze del “partito” di Aoun. Ma molti degli analisti indicano come decisivo l’intervento di “mediazione” di Stati Uniti e Francia, che di fatto hanno costretto i leader a raggiungere un compromesso: ora l’incognita è la sua tenuta. «Nessun partito ha il terzo bloccante», si è affrettato a puntualizzare il premier Mikati dopo la nomina dei 24 ministri (soltanto una donna, Najla Riashi, nominata Ministro dello sviluppo amministrativo). Aggiungendo poi che «non c’è tempo da perdere, anche se non abbiamo la bacchetta magica». Decisivo sarà comunque il ruolo del Fondo Monetario Internazionale, che si è già impegnato a versare al Libano un totale di 1,135 miliardi di dollari in “diritti speciali di prelievo” (una sorta di riserva internazionale che integra, al bisogno, le riserve dei paesi membri). Ossigeno puro per l’economia libanese, almeno in teoria. Perché restano i problemi endemici: la variabile della corruzione, dello spreco, dell’interesse personale. «Il popolo libanese merita un governo composto da politici integri, che non siano toccati da alcun sospetto di corruzione, senza alcun conflitto tra i loro interessi privati e l’interesse pubblico», ha accusato Delia Ferreira Rubio, presidente di Transparency International, ong che si occupa di misurare la corruzione nel mondo (il Libano è al 149° posto in classifica, su 180).

Lo strappo di Hezbollah che acquista petrolio dall’Iran

Ma anche la peggiore impasse può diventare un’occasione per ampliare il proprio potere, la propria influenza, anche se al prezzo di un innalzamento della tensione geopolitica. Come è accaduto il mese scorso, il 19 agosto, quando il leader di Hezbollah (partito che controlla la politica di difesa nazionale), Hassan Nasrallah, per dare risposte alla rabbia dei libanesi, ha annunciato un accordo con l’Iran per l’invio in Libano di tre petroliere (l’accordo non poteva essere formalizzato dal governo transitorio perché avrebbe violato l’embargo imposto dagli Stati Uniti sull’acquisto di petrolio da Teheran), scatenando l’ira sia di Washington, sia dei partiti rivali, preoccupati dall’esito dell’interferenza. Samir Geagea, leader delle forze cristiane libanesi, se l’è presa con il presidente Aoun: «Stai permettendo a Hezbollah di gestire la questione con metodi illegali a livello internazionale, e questo esporrà il Libano a una vera catastrofe». Dunque Hezbollah come uno “stato nello stato”, comprese le minacce a Stati Uniti e Israele di non interferire sulla spedizione: «Considerate quelle petroliere come territorio libanese». La prima delle navi, secondo quanto riporta la Reuters, dovrebbe attraccate in Siria e da lì il petrolio sarà portato via terra in Libano. La prima consegna dovrebbe avvenire questo fine settimana, secondo quanto riferisce Hezbollah. Sostiene l’analista politico libanese, Bachar El Halabi: «I funzionari di Hezbollah vogliono dimostrare che possono provvedere alle necessità dei propri elettori, e non solo. Inoltre, se gli americani o gli israeliani avessero deciso di attaccare le petroliere, sarebbe stata un'altra vittoria per Hezbollah: avrebbero detto che è la prova che il mondo occidentale sta assediando il Libano».

Ora la parola passa al governo Mikati, che tra pochi giorni si presenterà in Parlamento per ricevere la fiducia formale. Un governo formato con l’accordo di tutte le fazioni, compresa Hezbollah (accordo che garantisce posizioni influenti a tutte le 18 sette religiose del paese). «Siamo governati da pochi, vecchi, ricchi e uomini: abbiamo bisogno di un altro sistema», sostiene Halime El Kaakour, un’attivista libanese, docente di diritto universitario. «Lo diciamo da 10, 20 o 30 anni: questo sistema sta cadendo a pezzi ed è ora di costruirne un altro». Per un cambiamento radicale di sistema anche  Wassef Habib El Harake, avvocato libanese, tra i più noti attivisti del paese: «Non temo un ritorno della guerra civile», ha dichiarato, «ma questi leader sono criminali, tutti quanti. Hanno le mani intrise di sangue.  Il crollo attuale non è il risultato di problemi tecnici, ma una conseguenza del sistema. E la permanenza del sistema significa la permanenza del crollo. Per porre fine a questo crollo, deve avvenire un cambiamento nel sistema».

Perciò, per tutto ciò, resta intatta la perplessità che la politica delle “mani unite” invocata dal nuovo premier possa davvero funzionare con simili protagonisti, pronti a ballare sulle ferite della popolazione pur di ampliare il proprio consenso. Mikati ha promesso che le prossime elezioni parlamentari si terranno, come previsto, nel maggio 2022. Gli attivisti sperano che l’occasione si trasformi in una chance per un reale cambiamento, anche se un altro analista, Michel Doueihy, lascia poche speranze: «I partiti politici tradizionali sono pronti a tutto pur di restare al potere», ha detto all’agenzia France Presse. «Attraverso questo nuovo governo, l’élite dirigenziale sta cercando soltanto di riprendere fiato e di riacquistare una qualche credibilità. Ma non escludo che le elezioni, alla fine, possano essere rinviate».

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