SOCIETÀ

Iran: proteste continue ma il regime resta rigido

Stiamo davvero ascoltando? La comunità internazionale è consapevole dell’importanza di cosa sta accadendo in Iran? Eppure continua a salire altissimo il grido delle donne iraniane, la loro richiesta di libertà, del rispetto dei loro diritti, contro qualsiasi obbligo, contro la violenza. Sono due settimane che quel grido potente (“Donna, Vita, Libertà”) si leva al cielo. E sono grida di terrore, di rabbia, di dolore e di speranza, di coraggio ritrovato, riemerso dopo oltre trent’anni di oppressione. È la voce urlata di chi si ribella all’uccisione barbara di una ragazza colpevole di aver indossato in modo “improprio” l’hijab (non le copriva completamente i capelli), e perciò arrestata da alcuni agenti della “polizia morale”. Il pestaggio (per educarla?) è cominciato subito dopo il fermo, il 14 settembre, a bordo del furgone di servizio, e poi proseguito nella stazione di polizia di Vozara street. La ragazza ha perso i sensi, probabilmente dopo un violento colpo alla testa. Al Kasra Hospital, sempre a Teheran, è arrivata già in coma: i familiari hanno testimoniato che perdeva sangue dalle orecchie. Il 16 settembre è stata ufficialmente dichiarata morta. Aveva ventidue anni: si chiamava Mahsa Amini. Abitava a Saqqez, in Kurdistan: era a Teheran con la famiglia in visita ad alcuni parenti. C’è chi sostiene che avesse anche ferite compatibili con pallini da caccia sul viso, sul collo e sul petto. 

Quell’omicidio, brutale, ha segnato un confine, un punto di non ritorno. Centinaia, migliaia di ragazze hanno cominciato a tagliarsi i capelli in pubblico, a bruciare l’hjiab, che in un attimo s’è trasformato da espressione di fede e di cultura (oltre che di femminilità) nel simbolo della più buia delle oppressioni. Ma la protesta non è contro il velo, è contro l’obbligo del velo. Perciò hanno invaso il web con i loro video di protesta. Hanno manifestato occupando strade e piazze in oltre 80 città iraniane, trovando la forza e il coraggio di sfidare a viso aperto (e scoperto) le autorità, le leggi imposte e sostenute e difese dallo Stato islamico. Altro che nascondere, altro che coprire: quella rabbia si è trasformata in una sfida aperta al regime degli ayatollah. Una rivoluzione collettiva, con manifestazioni da Teheran a Karaj, da Rasht a Ilam, da Esfahan a Sanandaj, e perfino nelle due principali città religiose, Mashhad e Qom, centri spirituali e “roccaforti” della Repubblica Islamica. Non è la prima volta che gli iraniani scendono in piazza contro il governo: tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 ci furono enormi proteste in 21 città del paese, innescate da un brusco aumento del prezzo del petrolio, fino al 200%. Il bilancio di quegli scontri fu drammatico: si stima che i morti furono oltre 1500, con i cecchini del regime piazzati sui tetti a sparare sui dimostranti. E nessuno ha mai pagato.

Repressione, violenza e blocco di Internet

Anche questa volta il governo di Teheran (spiazzato, spaurito, isolato) ha reagito come tutte le dittature quando si trovano in difficoltà: pugno duro, repressione, violenza indiscriminata. La settimana scorsa il governo iraniano ha disposto il blocco della rete internet, per togliere visibilità ai manifestanti, e per chiudere un indispensabile canale di comunicazione, sperando di fermare la diffusione di quelle immagini di rabbia e di sfida, di protesta e di orgoglio, di violenza, con quei manganelli sferrati, quei capelli afferrati dai poliziotti in casco e divisa nera, quelle armi, quei proiettili. Il bilancio è gravissimo: ufficialmente le vittime durante gli scontri con la polizia sarebbero 83 (compresi alcuni bambini) e gli arresti oltre 3000, ma i numeri reali sono di sicuro più alti. Le informazioni filtrano con estrema difficoltà e solo grazie al lavoro di Ong, come Iran Human Rights. Il suo direttore, Mahmood Amiry-Moghaddam, continua a raccogliere informazioni sul campo e a denunciare: «L’uso di proiettili veri sui manifestanti è un crimine internazionale, e la comunità internazionale ha il dovere di prevenire e fermare questi crimini. Mentre il governo condivide sui canali Telegram controllati le confessioni forzate dei manifestanti, una flagrante violazione dei loro diritti al giusto processo». Anche Amnesty International ha denunciato ieri con un video su Twitter le aggressioni, le torture e perfino gli abusi sessuali a cui sono state sottoposte le donne iraniane da parte degli agenti delle forze di sicurezza. 

Una rabbia che è partita dalle donne e che ha presto contagiato trasversalmente gli iraniani, giovani e anziani, di diverse estrazioni sociali, perfino di diverse etnie. In un paese già stremato dalle difficoltà economiche aggravate peraltro dalle sanzioni internazionali, disposte dagli Stati Uniti in risposta ai piani sul nucleare di Teheran. Stanchi di dover sopportare i divieti, le costrizioni, la violenza, gli arresti indiscriminati, le condanne a morte per “omosessualità”. Del resto il regime stesso aveva annunciato, all’inizio di settembre, una “stretta” sui comportamenti delle donne. Annunciando che avrebbe perfino installato un programma di riconoscimento facciale sui trasporti pubblici per identificare le donne che non rispettano la legge, sempre più severa, sul corretto modo di indossare l’hijab. Un delirio ossessivo che ha portato all’arresto, e poi alla morte, di Mahsa. Studenti di 18 università iraniane hanno annunciato uno sciopero nazionale contro il regime di Teheran. Già lunedì e mercoledì scorso studenti e docenti hanno disertato le lezioni. Diversi insegnanti hanno denunciato che l’esercito ha requisito scuole per trasformarle in basi militari per reprimere i manifestanti, spesso studenti del liceo: fermati, torturati e lasciati per giorni in isolamento.

Tra le testimonianze raccolte nei giorni scorsi dal Guardian, quotidiano britannico, c’è la voce di un uomo di 44 anni, Faroud, da Teheran: «Sono arrabbiato e deluso. Sono un uomo semplice e voglio solo provvedere alla mia famiglia e tenerla al sicuro e felice. Il governo lo ha reso impossibile. Hanno rovinato tutto, l’economia, l’esportazione, l’importazione, la cultura. Ho un ragazzo adolescente e vuole vivere liberamente, usare i social media, indossare i vestiti che vuole, ma non può. Per giorni ho assistito alle brutalità della polizia contro manifestanti pacifici. Usano gas lacrimogeni e scariche elettriche. Hanno ucciso persone, giovani e anziani, uomini e donne. La gente vuole la libertà di informazione, la libertà di scegliere il proprio destino. I leader della Repubblica islamica credono di poter usare la forza per preservare la loro autorità: usano l’Islam come un’arma».

Raisi, il presidente-falco

Il presidente iraniano Ebrahim Raisi, magistrato, ex presidente della Corte Suprema dell’Iran, considerato un “falco” ultra-tradizionalista, integralista dalla spiccata visione anti-occidentale, eletto lo scorso anno con la “benedizione” del leader supremo Ali Khamenei, non arretra di un passo. E oltre ai dissidenti curdi, accusa apertamente i manifestanti: «Non possiamo permettere che alcune persone creino il caos e disturbino la sicurezza della società». Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Nasser Kanani, ha invece puntato il dito contro gli stati occidentali: «Nelle recenti rivolte, i leader politici americani e, a volte, europei, così come i loro media e i media ostili in lingua persiana sostenuti dall’Occidente, hanno abusato di un triste evento su cui si sta indagando e hanno fatto il possibile a sostegno dei rivoltosi e perturbatori della sicurezza nazionale con il pretesto del sostegno ai diritti umani». Anche la polizia iraniana, attraverso l’agenzia Fars, ha diffuso un comunicato in sintonia con le parole del Presidente: «Il personale di polizia si opporrà con tutte le sue forze alle cospirazioni dei controrivoluzionari e degli elementi ostili e agirà con fermezza contro coloro che turbano l’ordine pubblico e la sicurezza in tutto il Paese». L’unica voce religiosa che finora si è alzata per criticare l’operato della “polizia della moralità” è stata quella del Grande Ayatollah Asadollah Bayat-Zanjani, riformista, oppositore dell’attuale governo: «Nessuno – ha detto - dovrebbe essere costretto a seguire i valori islamici». In risposta, vari esponenti della Repubblica islamica hanno chiesto che fosse mandato a processo. Un deputato di Qom, Mojtaba Zolnouri, ha sostenuto che «alcuni religiosi hanno provocato sedizione e indotto in errore i giovani». E gli scontri, sempre più violenti, si susseguono in ogni angolo del paese. L’ultima notizia arriva da Zahedan, nel sud-est dell’Iran, dove un alto comandante del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche è morto ieri dopo essere stato ferito durante scontri con “uomini armati anti-regime”, come riporta l’agenzia di stampa Tasnim.

L’onda dell’indignazione popolare continua a gonfiarsi. Perché fermarsi, ormai, è impossibile: l’oppressione da parte delle autorità religiose diventerebbe intollerabile. E più aumenta la paura più cresce la voglia di urlare il proprio dissenso. E se scendere in strada è troppo pericoloso, si sale sui tetti e si grida da lì. Come se fosse diventata un’urgenza insopprimibile. Ed è un grido diverso dalle altri, che pure negli anni si sono succeduti. Non c’è solo la questione del velo, dei diritti delle donne, delle rivendicazioni sociali ed economiche: nel mirino questa volta c’è il regime stesso, la sua autoreferenzialità, la corruzione che genera, la repressione feroce che non esita a mostrare. Sostiene Annabelle Sreberny, professoressa emerita dell’Iranian Studies Center presso la Soas University di Londra: «Le questioni femminili sono state a lungo un catalizzatore per un’azione politica più ampia in Iran. Questo potrebbe essere il momento in cui le persone motivate da tutti i problemi che l’Iran deve affrontare oggi, come l’aumento dell'inflazione, la crisi ecologica e la mancanza di partecipazione democratica, si uniranno attorno ai problemi delle donne per sfidare il regime».

Anche le celebrità sfidano il regime

Anche per questo si moltiplicano (ed è comunque un elemento da non sottovalutare), le prese di posizione di personaggi pubblici, intellettuali, cantanti, attori, sportivi, a sostegno della protesta delle donne. Come il post che uno dei più noti calciatori iraniani, Sardar Azmoun, che gioca in Germania nella squadra del Bayer Leverkusen, ha pubblicato su Instagram, dal ritiro della Nazionale: «Non posso più tollerare il silenzio. Se vogliono tagliarmi dalla squadra è il sacrificio per una sola ciocca di capelli di una donna iraniana. Vergognatevi per la facilità con cui uccidete le persone. Lunga vita alle donne iraniane». Per dire del clima che si respira: lo stesso calciatore ha poi pubblicato (costretto?) un successivo post in cui si è scusato con i suoi compagni della nazionale, evidentemente infastiditi dalla sua presa di posizione, per aver violato il protocollo che impone il silenzio, sempre e comunque. Come le attrici Katayoun Riahi e Fatameh Motamed-Ayra, che si sono pubblicamente tolte il velo in segno di sfida. Come il regista iraniano premio Oscar, Asghar Farhadi, che ha pubblicato un video chiedendo al mondo di unirsi nella solidarietà ai manifestanti. Mohsen Mansouri, governatore della provincia di Teheran, ha già minacciato che saranno presi provvedimenti contro le celebrità che mostrano sostegno alle proteste anti-governative. Ma lo Stato islamico nulla potrà contro le star internazionali, da Angelina Jolie a Dua Lipa, da Justin Bieber a Bella Hadid, apertamente schierati a favore dei diritti delle donne iraniane.

Ma l’attenzione resta ancora alta anche nella comunità internazionale si sta muovendo. Giovedì scorso il ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock, ha chiesto all’Unione Europea di imporre sanzioni contro l'Iran per la “letale repressione della Repubblica islamica”. Anche Stati Uniti e Canada hanno disposto nuove sanzioni nei confronti del regime di Teheran, “mirate” sui diritti umani, anche se il discorso qui diventa più ampio e s’intreccia con la fine dei colloqui sul nucleare, di fatto bloccati. Come riporta Iran International, tv in lingua persiana con sede a Londra: «Un accordo rinnovato avrebbe svincolato decine di miliardi di dollari per la Repubblica islamica. E nell’attuale clima di violazioni dei diritti umani da parte di Teheran, la firma di un accordo nucleare che eliminerebbe le sanzioni e arricchirebbe il governo, sembra improbabile». Anche UN Women, l’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere, si è schierata al fianco delle donne iraniane «per difendere le loro legittime richieste di protestare contro l’ingiustizia senza rappresaglie e di essere libere di esercitare la loro autonomia corporea, inclusa la scelta dell’abbigliamento». 

Chi di certo continua ad ascoltare ciò che accade, non soltanto a Teheran, sono le migliaia di studenti iraniani che in ogni angolo del mondo, puntualmente, ostinatamente, continuano a organizzare proteste per sensibilizzare, per tenere alta l’attenzione su quanto sta accadendo in patria. Da New York a Parigi, da Berlino a Istanbul, da Atene a Madrid, da Ginevra a Melbourne, da Oslo a Kabul. E naturalmente anche in Italia: Roma, Firenze, Milano, Bologna, Padova (lunedì scorso, sotto palazzo Moroni), Torino, Napoli. Con un solo obiettivo: far rimbalzare ovunque quel grido di libertà. 

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