SCIENZA E RICERCA

Poche multinazionali sono responsabili di buona parte del riscaldamento globale

L’atmosfera non ha confini e le emissioni antropiche di gas serra provocano un riscaldamento globale che non rimane all’interno del Paese che le ha generate. Anche le fonti di gran parte di quelle emissioni sono entità senza confini: le multinazionali del petrolio, del gas, del carbone e del cemento.

Delle circa 2.500 miliardi di tonnellate (Gt) di CO2 che secondo l’IPCC sono state prodotte dal 1850 in avanti, il database di Carbon Majors considera 1.400 Gt, prodotte da solo 122 emettitori divisi in tre categorie: 75 compagnie private controllate da investitori, 36 compagnie controllate da Stati, e 11 Stati nazionali direttamente coinvolti nella produzione di combustibili fossili. Complessivamente, nel database rientrano il 72% delle emissioni del settore energetico e del cemento.

Secondo un rapporto uscito a inizio aprile, solo 57 di queste compagnie sono responsabili dell’80% delle emissioni prodotte dal 2016 al 2022, dopo la firma dell’accordo di Parigi.

In cima a questa classifica si colloca Saudi Aramco, il colosso petrolifero saudita che avrebbe emesso poco meno del 5% delle emissioni globali nel periodo considerato, 13,2 miliardi di tonnellate (Gt) di CO2. Al secondo posto c’è la russa Gazprom, con più di 10 Gt CO2, equivalente al 3,3% del totale. Sul gradino più basso del podio arriva Coal India con 8,5 Gt (3%). Nella top ten figurano anche l’americana ExxonMobil e la britannica Shell.

Il database di Carbon Majors raccoglie non solo le emissioni recenti, ma anche quelle prodotte dalla rivoluzione industriale in poi. In questo caso, solo 78 aziende sono responsabili di circa il 70% delle emissioni di CO2 prodotte dal 1854 al 2022. In quest’altra top ten compaiono di nuovo le cinque compagnie già citate, ma il primo posto spetta alla produzione industriale di carbone in Cina (276 Gt, equivalenti al 14% del totale) e il secondo viene assegnato all’economia energetica di quella che fu l’Unione Sovietica (135 Gt, 6,8%).

I soggetti privati sono responsabili del 31% delle emissioni storiche (440 Gt): Chevron (57,8 Gt, 3%), ExxonMobil (55 Gt, 2,8%) e BP (42,5%, 2,2%) in questa categoria la fanno da padrone. Le compagnie controllate da soggetti pubblici hanno prodotto il 33% delle emissioni accumulatesi in atmosfera (465 Gt) e Saudi Aramco (68,8 Gt, 3,6%), Gazprom (50.6 Gt, 2,3%) e la National Iranian Oil Company (43,1 Gt, 2,2%) sono le tre più grandi. Agli Stati nazionali spetta il restante 36% (516 Gt) con la produzione di carbone cinese e l’Unione Sovietica in cima a questa classifica.

Nei sette anni che hanno seguito l’accordo di Parigi tuttavia la ripartizione della responsabilità delle emissioni è cambiata. Gli Stati nazionali pesano per il 38%, le compagnie controllate dagli Stati per il 37% e le compagnie controllate dagli investitori per il 25%.

L’analisi di Carbon Majors è il frutto del lavoro di Richard Heede del Climate Accountability Institute che per la prima volta nel 2013 pubblicò il database. Da allora è stato periodicamente aggiornato e usato in diversi contesti accademici, legali (climate litigations), e normativi per dimostrare come la responsabilità della crisi climatica possa venire ascritta a poche decine di soggetti privati, statali e para-statali.

Anche dopo la firma dell’accordo di Parigi le operazioni produttive id queste compagnie multinazionali hanno visto un’espansione anziché una contrazione, soprattutto in Asia e in Medio Oriente. Anche un rapporto di Carbon Tracker certifica che nessuna delle 25 maggiori aziende di combustibili fossili ha delineato impegni che siano in linea con un riscaldamento globale che rimanga entro il limite dei 2°C.

Quest’altra associazione ha elaborato una scala di voti che va da ‘A’ (allineata all’accordo di Parigi) a ‘H’ (non potrebbe essere più lontana dall’accordo di Parigi). La britannica BP è quella che riceve il voto più alto, una D. Saudi Aramco, ExxonMobil e la brasiliana Petrobras hanno ricevuto una G, mentre ConocoPhillips è l’unica a portare a casa una H. Tutte le aziende considerate in questo studio programmano di espandere le loro estrazioni nel breve termine, tranne Repsol, Equinor e Shell che le manterranno stabili, mentre BP e Chesapeake intendono diminuirle. Quattro delle cinque compagnie che ottengono i voti più altri sono europee, mentre tre delle cinque con i voti peggiori sono statunitensi.

Il cambiamento climatico è una sfida globale che richiederebbe un sistema di governo altrettanto globale per essere affrontata. Il meglio che siamo riusciti a fare però è un trattato internazionale, l’accordo di Parigi, che delega ai Paesi membri delle Nazioni Unite l’elaborazione di strategie di mitigazione delle emissioni e adattamento a livello nazionale (le Nationally Determined Contributions – NDCs): non un’unica risposta coordinata, ma tante, distinte e asincrone politiche nazionali.

Le grandi aziende dell’energia fossile hanno le loro sedi legali in singoli Stati nazionali, ma le loro attività travalicano quei confini. Inoltre, queste compagnie rispondono non alle logiche democratiche, ma esclusivamente a quelle di mercato. L’amministratore delegato di Saudi Aramco, Amin Nasser, ha recentemente dichiarato che l’idea di abbandonare i combustibili fossili con la transizione energetica è “una fantasia”, facendo il verso, più o meno indirettamente, al direttore dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, Fatih Birol, che pochi mesi prima aveva definito “pura fantasia” la promessa di abbattere le emissioni di gas, petrolio e carbone ricorrendo solo alle tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2, senza a monte ridurre drasticamente i consumi.

Il punto è proprio questo: lasciata alle sole regole di mercato, la riduzione della produzione dei combustibili fossili non avverrà da sola. Anzi, i dati di Carbon Major confermano che la maggioranza delle compagnie dell’Oil & Gas programma di continuare a generare profitti negli anni a venire.

La transizione energetica deve misurarsi con le regole di un mercato energetico ad oggi ancora dominato dalle fonti fossili. Tuttavia, la diffusione delle soluzioni energetiche a basse emissioni oggi è già in forte crescita a livello globale. Il solare fotovoltaico ha visto decimare i suoi costi negli ultimi 10 anni e nel 2023 è stata installata una capacità di generazione doppia rispetto a quella installata nel 2022: circa 350 GW contro i circa 175 dell’anno precedente, secondo i dati IRENA. Anche la Cop 28 di Dubai ha messo nero su bianco, per la prima volta a una conferenza sul clima delle Nazioni Unite, che la transizione si farà. Purtroppo non conta solo se si farà o no, ma quanto in fretta si farà.

Per creare le condizioni di mercato favorevoli alla rapida diffusione delle fonti di energia sostenibili occorre darsi regole condivise che siano state concordate di concerto dagli Stati nazionali. Per far questo servono rappresentanti eletti che siano preparati e all’altezza della sfida. Nonostante tutto, la democrazia ha ancora un ruolo centrale da giocare nel governo della transizione energetica.

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