SCIENZA E RICERCA

Sull'inglese e la ricerca scientifica

"There is no such thing as society» (Margaret Thatcher)

"Se semplifichi il tuo inglese, ti liberi dalle peggiori follie dell'ortodossia".

Riporto un estratto dall'articolo Che inglese devo parlare, per fare scienza?"Questo articolo richiede una revisione significativa, perché non è scritto in un buon inglese e non può essere accettato in questa forma". E ancora: "Gli autori hanno bisogno di un madre lingua inglese per una profonda revisione della grammatica di questo manoscritto. Per ora l’articolo è rifiutato".

Alcuni, forse, ricordano la sprezzante battuta della Lady di Ferro, riportata in apertura.

Per la precisione, la citazione completa era la seguente: "They are casting their problems on society. And, you know, there is no such thing as society. There are individual men and women and there are families".

Non tutti fanno parte dell’insieme (un po’ dantesco) di "color che sanno" quel che “sa” Maggie ("you know"), quindi è lecito chiedersi: corrisponde a questa descrizione, la realtà?

E come si connette a questo tema, un articolo rifiutato da una rivista scientifica?

Non ho la certezza razionale che l’aforisma thatcheriano possa trasformarsi in assioma, perché esso sembra cedere di fronte ad un fenomeno che ci caratterizza come individui, come specie e nella società: il linguaggio. Questo argomento vale anche a prescindere dal fatto che sembra lecito affermare che la famiglia (di cui l'ex premier britannica riconosce l'esistenza) sia una forma di società.

Questa sintetica analisi si limita a sviluppare alcune osservazioni sui rapporti tra linguaggio corrente, linguaggio tecnico-scientifico e linguaggio tecnico-giuridico, quale nota a margine dell’articolo sopra citato, pubblicato su questo sito.

Per entrare in argomento, sia sufficiente ricordare come la letteratura scientifica sia la principale delle relazioni tra parlanti facenti parte di una comunità, in quanto accomunati da un sapere tecnico. Occorre quindi individuare le proprietà dello strumento linguistico del quale codesti particolari parlanti si servono, per comunicare tra loro.

Credo sia buona idea prendere spunto da un ormai piuttosto risalente saggio di Robert Hughes, intitolato La cultura del piagnisteo e sottotitolato La saga del politicamente corretto (Adelphi, 1993).

Trattasi di un saggio di lettura molto godibile, ma denso di parole ben scritte e meglio affilate. Cito testualmente, nessuno fraintenda i riferimenti religiosi: "Poco più di cinquant’anni fa il poeta W.H. Auden riuscì in un’impresa che fa invidia a ogni scrittore: azzeccare una profezia. La profezia compare in un lungo lavoro intitolato«For the Time Being: A Chistmas Oratorio», là dove Erode medita sul compito ingrato di massacrare gli innocenti. D’animo fondamentalmente tollerante, egli ne farebbe volentieri a meno. E tuttavia, dice, se si consente a quel bambino di scamparla, "Non occorre essere profeti per prevedere le conseguenze… La Ragione sostituita dalla Rivelazione. La conoscenza degenererà in un tumulto di visioni soggettive – sensazioni viscerali indotte dalla denutrizione, immagini angeliche suscitate dalla febbre o dalle droghe, sogni premonitori ispirati dallo scroscio di una cascata. Compiute cosmogonie nasceranno da dimenticati rancori personali, intere epopee saranno scritte in idiomi privati".

Riguardo ai rapporti tra comunità scientifica e comunità politica (popolo e suoi rappresentanti) dobbiamo ricordare che le notizie false e tendenziose, su temi scientifici, ci portano verso ciò che, secondo Hughes, l’Erode di Auden antivedeva: un mondo pieno di sfiducia nella politica formalizzata nelle istituzioni, scettico sull’autorità politica, giuridica ed intellettuale e preda della superstizione; corroso, nel linguaggio politico, dalla falsa pietà e dall’eufemismo. Ogni riferimento alle "cure" offerte (spesso a caro prezzo!)  da profeti e guru della pseudoscienza è voluto.

Ci stiamo avvicinando al punto: possiamo permetterci che, nel nome del rispetto delle diversità (anche linguistiche, certo) del compromesso e del politicamente corretto, il linguaggio degradi a idioma privato e l'aspirazione all'uguaglianza degeneri nella pretesa di autoreferenzialità? In particolare: possiamo permetterlo nella comunicazione scientifica, visto che l'innovazione è un fondamentale driverdell'economia, del benessere e della salute?

Ordiniamo in decrescendo i pioli della scala che, dall’apparato foniatrico del corpo dell’individuo, conducono alla struttura del corpo sociale:

1. Il linguaggio corrente si propone quale strumento d’elezione per la massima parte degli scambi di informazioni tra i parlanti una medesima lingua. Per candidarsi a questo ruolo, esso deve pagare un prezzo in termini di ridondanza ed ambiguità. Soffrendo di tali limiti, il linguaggio corrente non può dirsi estraneo al dominio dell’interpretazione.

2. Esistono poi i linguaggi che contraddistinguono una più ristretta comunità di parlanti: i gerghi da una parte, i linguaggi tecnici dall’altra. Il gergo mira propriamente a costituire una comunità ristretta, mentre pare fondato sostenere che il linguaggio tecnico delle scienze persegua un obiettivo più complesso: certamente, il linguaggio scientifico mira ad instaurare una relazione di corrispondenza biunivoca tra un termine ed uno, ed uno solo, significato, ben definito. Ma questo metodo non mira a costruire una comunità ristretta: al contrario, è lo strumento sviluppato della comunità scientifica per comunicare con la comunità politica, intesa come popolo. Il tentativo di ridurre gli spazi di ambiguità serve proprio a facilitare gli scambi di informazioni, evitando il ricorso a frasi con funzione interpretativa delle frasi che realmente fungono da vettori di informazioni.

3. Ma esiste un’ipotesi estrema, piuttosto inquietante: quelli che Robert Hughes chiama "idiomi privati", i quali scavano fosse abissali di incomunicabilità tra nazioni, gruppi e, nel caso limite, tra individui.

Chiediamoci, con Hughes: chi mai leggerà quelle "epopee scritte in idiomi privati" (nel caso limite: personali)? Chi potrà leggerle, per quanto ipoteticamente avvincenti?

Generalizzando: può esistere comunicazione, tra parlanti ciascuno dei quali usa la propria lingua, intesa come lingua privata, anzi: personale?

Guardiamo in faccia questa distopica comunità di parlanti, sull’orizzonte del collasso della società nell’individuo come monade isolata. Ce la descrive sempre Hughes: "… il bisogno delle masse … si innalzerà in alvei totalmente asociali, dove nessuna forma di istruzione potrà raggiungerlo".

Ecco: siamo arrivati all’istruzione, insieme alla ricerca uno dei compiti istituzionali dell’università.

Pertinente al nostro caso è la seguente affermazione: chi scrive per la comunità scientifica della ricerca deve usare il linguaggio di questa. Nessun’altra comunicazione è "efficace", in quel contesto. Si pensi al semplice fatto che di ogni fenomeno biologico è possibile una descrizione del senso comune, una filosofica, una biologica, ecc.. Ma solo una descrizione in termini rigorosamente biologici potrà descrivere ad un biologo un fenomeno che il parlante ritenga afferire al dominio della biologia.

Adesso siamo pronti ad affrontare il nostro argomento.

Il linguaggio è una capacità indispensabile, per l’abilitazione della persona (enablement) all’autonomia. Si pensi a quella che, nella comunità dei disabili, si chiama «vita indipendente». Ovvero: il passaggio dal disablement all’enablement.

Il riferimento alla disabilità non sembri inappropriato, visto che la ricercatrice autrice dell'articolo rifiutato fa esplicitamente appello all'argomento della diversità. Cito testualmente l'articolo in commento: "Dunque, argomenta Adriana L. Romero-Olivares, io sono messicana. Dunque ispanica. Dunque lo spagnolo è la mia lingua nativa. Devo fare uno sforzo per scrivere in inglese. Uno sforzo suppletivo rispetto a un collega di madrelingua inglese. Ma per la mia carriera di ricercatrice io sono obbligata a scrivere in questa lingua usata dagli anglosassoni e diventata franca nel mondo della scienza. Per me, tuttavia, è una seconda lingua. Non meriterei un po’ di considerazione?".

Sembra un'eco della critica al colonialismo, quindi non sembri inappropriato ricordare che la comunicazione all'interno della comunità scientifica può essere one small step per uno scienziato ma, per via di serendipity, può condurre tutta la comunità scientifica a un giant leap. Il trasferimento tecnologico, successivamente, permette di "enable" tutta la comunità umana di sperimentare gli effetti di quel giant leapnella propria vita quotidiana. Pensiamo alle possibilità di vita indipendente che può aprire la terapia genica.

L'articolo di Il Bo Live prosegue: "Giusto avere una lingua franca, per carità. Altrimenti come si intenderebbero tra loro gli scienziati anglosassoni, latini, orientali, africani? Giusto, dunque, avere riviste internazionali che accettano solo articoli in lingua inglese".

Muovendoci sul crinale tra scienza e tecnologia, laddove si manifesta anche il diritto come potere dello Stato, possiamo individuare un altro senso alla parola enablement: l’art. 51, secondo comma, del Codice della Proprietà Intellettuale recita: "L'invenzione deve essere descritta in modo sufficientemente chiaro e completo perché ogni persona esperta del ramo possa attuarla … (omissis)". Ecco, quindi, che dobbiamo porci il problema del linguaggio giuridico.

Agli studenti e studiosi che vogliono accertarsi di quale sia lo stato della tecnica, nel settore cui la propria tesi di laurea (o dottorato, o post-dottorato) afferisca, mai si ripeterà a sufficienza che le informazioni che cercano si trovano non solo nella letteratura scientifica, ma anche nelle banche dati dei brevetti e delle domande di brevetti pubblicate. Infatti non è razionale escludere che una invenzione non sia stata oggetto di pubblicazione (per i motivi più vari e contingenti) ma di una domanda di brevetto (anche respinta, ma tuttavia interessante).

Bene: gli studenti e gli studiosi sappiano che, nel consultare la letteratura brevettuale, possono contare sull'articolo 51 sopra citato, il quale impone che i testi che costoroleggeranno contengano informazioni complete, esposte in forma chiara. Precisa è l’espressione inglese: enabling description, la quale ci riconduce al tema dell’enablement.

Possiamo definire enabling per la comunità scientifica il linguaggio usato dall'autrice di cui parlava Il Bo live, nell’articolo qui in commento? Se diamo per valide le taglienti critiche del comitato di peer review, sopra riportate: no.

Stando all'autrice, questo difetto di comunicazione efficace si deve alla fase ditraduzione.Quindi si tratterebbe di un problemanon intrinseco ai contenuti od alla forma dell’articolo originale, scritto dall'autrice medesima nella sua lingua nativa. Veniamo quindi, all'ultimo problema: il linguaggio sotto gli strumenti della traduzione. Problemache si pone anche davanti agli Uffici Brevetti, i qualirichiedono traduzioni delle domande di brevettonelle lingue che essi, secondo le proprie norme istitutive, considerano ufficiali.

Il fine dell’attività di traduzione è assicurare la comunicazione, ovvero l’efficace trasmissione di informazioni superando le barriere linguistiche. Si intende per «efficace» la trasmissione che consente al ricevente l’elaborazione delle informazioni trasmesse. Si ricordino gli aggettivi ricorrenti nell’articolo 51 sopra riportato in estratto.

È, quella del comitato di peer review, una pretesa giusta, di fronte alle recriminazioni dell’autrice dell’articolo rifiutato? Poiché ogni articolo viene pubblicato allo specifico fine di far circolare nella comunità scientifica le informazioni che l’articolo stesso espone, non può che concludersi: sì, la pretesa che l’autrice si esprima in termini chiari è fondata. Nella fattispecie concreta, ilrifiuto è statomotivato con errori di grammatica, quindi oggettivamente molto compromettenti, ai fini del processo dicomunicazione.

In tema di traduzione, continua l'articolo di Il Bo live: "Ma perché questo inglese deve essere quello fluente di Oxford o di Cambridge e non un inglese meno elegante ma più funzionale, magari con un vocabolario ridotto e con frasi idiomatiche meno ricercate? In poche parole: non potrebbe essere accettato un inglese più facile?".

Appare chiaro, adesso, il significato della soluzione proposta da Hughes: "Se semplifichi il tuo inglese, ti liberi dalle peggiori follie dell'ortodossia. Non potendo più parlare uno dei gerghi prescritti, se dici una insensatezza (eufemismo, nota mia)la tua insensatezza apparirà evidente anche a te".

La conclusione mi sembra la seguente: solo garantendo una comunicazione scientifica enabling, chi sottopone (non «sottomette»: questo è un anglismo fuorviante, un vero false friend) una bozza per la pubblicazione può garantire (anche a se stesso, ricorda Hughes) una comunicazione socialmente, scientificamente e tecnicamente enabling.

Concludo con convinzione e concisione: alla domanda dell'autrice dell'articolo rifiutato "Non meriterei un po' di considerazione?" Io rispondo: "No".

No, perché gli handicaps, anche quelli linguistici, vanno superati attraverso quello che l’autrice stessa definisce «sforzo»e la formazione continua.

E chi nega questo, afferma che there is no such thing as society. Ognuno è libero di ritenere controintuitiva questa conclusione.

Un ultimo dubbio: chi chiede "un po’" di considerazione, quanta ne chiede, esattamente? Perché la scienza nasce con la possibilità di enumerare, direbbe Galileo. E i padovani hanno avuto Galileo tra i loro concittadini, per "i suoi migliori dieci anni".

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