SCIENZA E RICERCA

Che inglese devo parlare per fare scienza?

“Questo articolo richiede una revisione significativa, perché non è scritto in un buon inglese e non può essere accettato in questa forma”. Quando la postdoc messicana Adriana L. Romero-Olivares ha ricevuto questa nota dalla rivista scientifica cui aveva sottoposto il suo primo lavoro ha avuto un tuffo al cuore. La sensazione ha sfiorato la disperazione quanto il referee ha infierito: “Questa frase non ha alcun senso”. E ancora: “Gli autori hanno bisogno di un madre lingua inglese per una profonda revisione della grammatica di questo manoscritto”.

Per ora l’articolo è rifiutato

Adriana L. Romero-Olivares ha confidato a Science queste sue sensazioni. La rivista inglese le ha pubblicate nella rubrica Working Life la scorsa settimana. La nota di Adriana ha la forza di un editoriale. Un editoriale che dovrebbe far riflettere chi ama la scienza e il suo universalismo, perché è la denuncia di un’asimmetria ingiusta.

Prima di reagire con insofferenza a questo aggettivo – ingiusta – aspettate la fine dell’articolo.

Dunque, argomenta Adriana L. Romero-Olivares, io sono messicana. Dunque ispanica. Dunque lo spagnolo è la mia lingua nativa. Devo fare uno sforzo per scrivere in inglese. Uno sforzo suppletivo rispetto a un collega di madrelingua inglese. 

Ma per la mia carriera di ricercatrice io sono obbligata a scrivere in questa lingua usata dagli anglosassoni e diventata franca nel mondo della scienza. Per me, tuttavia, è una seconda lingua. Non meriterei un po’ di considerazione?

Il discorso non riguarda solo Adriana, ma la parte ormai maggioritaria della comunità scientifica internazionale la cui lingua nativa non è l’inglese, ma il cinese, il giapponese, il coreano, il tedesco, il francese… L'italiano. Giusto avere una lingua franca, per carità. Altrimenti come si intenderebbero tra loro gli scienziati anglosassoni, latini, orientali, africani? Giusto, dunque, avere riviste internazionali che accettano solo articoli in lingua inglese. Ma perché questo inglese deve essere quello fluente di Oxford o di Cambridge e non un inglese meno elegante ma più funzionale, magari con un vocabolario ridotto e con frasi idiomatiche meno ricercate? In poche parole: non potrebbe essere accettato un inglese più facile?

Ma non è finita, sostiene Adriana. L’articolo è stato valutato e rifiutato in attesa di revisione solo per l’inglese. Il referee – che nel gergo degli scienziati significa il mio collega anonimo che ha fatto la revisione critica – non si è occupato minimamente del contenuto scientifico. Si è occupato solo dell’inglese? Non è un modo un po’ riduttivo – e, forse, già un po’ ingiusto – di realizzare la peer review (un altro modo di dire la revisione critica da parte di un collega anonimo)?

Non dovrebbero, le riviste scientifiche, guardare prima ai contenuti e poi alla forma o, almeno, insieme alla forma? E se quell’articolo scritto in un inglese giudicato cattivo contenesse risultati di primaria importanza? Non sarebbe il progresso della scienza a pagare uno scotto elevatissimo?

No. Non è finita ancora. Io Adriana L. Romero-Olivares risulto affiliata a un’università messicana. Ma sto svolgendo il mio postdoc presso la University of New Hampshire di Durham, negli Stati Uniti. L’articolo che ho sottoposto è stato scritto insieme a un co-autore madrelingua inglese ed è stato letto e approvato da un altro madrelingua inglese. Se neppure il loro inglese è sufficiente, allora cosa pretendono le riviste internazionali che a scrivere gli articoli siano scrittori di professione e/o linguisti?

A meno che – questo lo insinuiamo noi con un pizzico di cattiveria – non sia stata l’affiliazione di Adriana a trarre in inganno il referee, perché la giovane postdoc risulta aggregata a un’università messicana. E questo potrebbe aver fatto scattare il pregiudizio: è ispanica, dunque non conosce l’inglese. Non l’inglese che pretendiamo noi.

Non è, la nostra, un’inferenza gratuita. Chi scrive ricorda ancora un colloquio avuto trent’anni fa con l’allora direttore di Nature, John Maddox. L’astronomo diventato direttore della prestigiosa rivista scientifica si chiedeva come mai era costretto a rifiutare oltre l’80% degli articoli provenienti dal Giappone, mentre la percentuale era più che dimezzata nel caso di autori inglesi o statunitensi? 

Più o meno nello stesso periodo un ricercatore indiano dichiarava allo Scientific American che quando faceva ricerca in America e risultava affiliato a un’importante università californiana il tasso di rifiuto dei suoi articoli era quasi zero, mentre da quando si era trasferito in India e la sua affiliazione risultava un’università del grande paese asiatico il tasso di rifiuto era aumentato in maniera molto significativa. Non era l’inglese, dunque, ma l’affiliazione a frustrare le ambizioni del noto ricercatore?

Potrebbe essere. Ma non abbiamo dati probanti a proposito. Certo resta l’amara constatazione di Adriana L. Romero-Olivares: perché la mia carriera deve dipendere dal modo in cui parlo – o si presume che parlo – una lingua straniera, per quanto franca, e non dal valore scientifico di quello che racconto?

Una bella domanda, in un’era in cui l’internazionalizzazione della scienza sta raggiungendo (per fortuna) tassi elevatissimi, a dispetto di ogni sovranismo.

 

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