“Raggiungere l’uguaglianza di genere ed emancipare tutte le donne e le ragazze”. È il quinto dei 17 obiettivi del programma dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile sottoscritto nel 2015 dai governi di 193 Paesi membri dell’Onu. In questa direzione è andato anche il ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca italiano con la firma, pochi mesi fa, del decreto con cui ha messo a disposizione un pacchetto di fondi destinati all’orientamento scolastico. Tra questi il Miur ha previsto un contributo di tre milioni di euro che le università italiane potranno utilizzare per favorire le iscrizioni ai corsi di laurea nelle cosiddette discipline STEM (acronimo per Science, Technology, Engineering, Mathematics), con specifici incentivi a favore delle studentesse. L’utilizzo di questi fondi si traduce nella possibilità per gli atenei di valutare eventuali esoneri parziali o totali degli studenti dalle tasse o di erogare contributi aggiuntivi o altre forme di sostegno agli studi. Inoltre le università riceveranno il 20% in più di risorse per le iscrizioni delle studentesse rispetto a quelle di studenti maschi. Un modo per incoraggiare il mondo femminile alle scienze, materie che, condizionamenti culturali, stereotipi e pregiudizi, hanno da sempre portato ad avvicinare con maggior facilità l’universo maschile.
Secondo i dati forniti dal Miur nel 2016 nel nostro Paese le donne iscritte a corsi di laurea di ambito scientifico erano il 36,6%. “Anche se possiamo definire il nostro un ateneo ‘rosa’ (nel 2016 le studentesse erano il 54% contro il 46% degli studenti), solo nel dipartimento di Ingegneria dell’informazione all’università di Padova – spiega Silvana Badaloni docente e coordinatrice dell’Osservatorio di ateneo per le pari opportunità – nello stesso anno il totale delle studentesse iscritte ai corsi di studio che fanno capo allo stesso Dipartimento erano il 21,2% (gli studenti il 78,8%)”. Numeri che rispecchiano un trend presente nell’intero ateneo e la distribuzione sbilanciata di studenti e studentesse nei diversi settori di studio con una presenza maggiore delle donne nelle aree umanistica, sociale e sanitaria. Un fenomeno, questo definito come ‘segregazione orizzontale’ che caratterizza non solo l’ambito scolastico ma anche quello occupazionale.
Conseguita la laurea infatti, la situazione non è poi così diversa (e non solo nel nostro Paese). Dopo il Premio Nobel vinto dalla fisica Marie Curie nel 1903, sono solo 17 le donne che ad oggi hanno ottenuto il prezioso riconoscimento nell’ambito della fisica, della chimica o della medicina. E sono ancora una minoranza, il 28% del totale, le donne che in tutto il mondo fanno ricerca. Escludendo Paesi come la Cina dove nel 2016 le studentesse impegnate in un master erano il 53% e in un dottorato il 39%, l’America Latina dove le donne attive nell’ambito della ricerca scientifica erano nel 2015 il 44% e altre eccezioni, la media delle donne impegnate nell’attività di ricerca è molto bassa. In Giappone, India e Arabia saudita le ricercatrici sono meno del 15%, nell’Unione Europea il 33%.
Dati che spiegano come questa dinamica sia diffusa anche nel mondo del lavoro tanto che nel nostro Paese la percentuale delle donne che occupano posizioni tecnico scientifiche è tra le più basse dei paesi Ocse (31,7% contro il 68,9% degli uomini). Così anche negli Stati Uniti dove le donne che lavorano in ambito scientifico nel 2016 erano il 24% contro il 76% degli uomini. “Questi numeri sono in linea con la situazione europea e con quella del nostro ateneo – spiega Badaloni -. I numeri raccolti all’interno del bilancio di genere mostrano nella nostra università una certa uniformità nella presenza di uomini e donne all’inizio della carriera (dottorandi, assegnisti di ricerca) che poi si modifica visibilmente quando si arriva a ricoprire ruoli accademici”. Anche se per le donne il livello d’istruzione è cresciuto negli anni (anche nell’ateneo patavino i voti e i titoli conseguiti dalle studentesse sono superiori rispetto a quelli dei maschi) una volta terminata la carriera studentesca, questo aspetto non si traduce tuttavia in occupazione. Nell’anno accademico 2015-2016 a Padova i docenti di prima fascia erano uomini per quasi l’80% e donne nel 20% dei casi. Tra queste, le titolari d’insegnamenti in ambito scientifico erano il 13,7% mentre gli uomini l’86,3% (99 le docenti di prima fascia contro 386 professori del medesimo livello). “Significativa – prosegue Badaloni – è la presenza, o meglio l’assenza, di professoresse di prima fascia all’interno del Dipartimento di fisica e astronomia (il 4,8% contro il 95,2% degli uomini) e la totale assenza di professori ordinari donna in quattro dipartimenti (Icea, Dimed, Dns, Dtg). Una situazione nei confronti della quale l’ateneo ha intenzione di impegnarsi con precise scelte e impegni anche finanziari”.
Intervista ad Annalisa Oboe, prorettrice alle Parità di genere - università di Padova