SOCIETÀ

Aborto, non si placano le proteste in Polonia

Proteste del genere, in Polonia, non si vedevano dai tempi di Solidarność, e anche allora si parlava di libertà, di difesa dei diritti civili. Oggi, o meglio da oltre 40 giorni, in primissimo piano c’è la questione dell’aborto: la pretesa del governo, attraverso la Corte Costituzionale, di impedire l’interruzione della gravidanza anche in caso di malformazione congenita del feto. Ed è perciò che centinaia di migliaia di polacchi, soprattutto i più giovani, si ostinano a scendere in piazza per gridare il loro no, per sfidare l’esecutivo guidato dai sovranisti-clericali di estrema destra, il partito che, paradossalmente, s’intesta il titolo di “Diritto e Giustizia” e che, in strettissima intesa con la Chiesa cattolica (l’arcivescovo di Cracovia, ha sostenuto che «i giudici hanno preso una decisione coraggiosa per difendere la vita umana»), ha voluto a tutti i costi l’approvazione di questa legge, che già era tra le più restrittive d’Europa. Ma la sensazione è che in Polonia stia accadendo altro: un mutamento sociale e culturale, oltre che politico, che potrebbe, a seconda della piega che prenderanno gli eventi, cambiare il volto del Paese.

In caduta la credibilità del governo e della Chiesa

Il gradimento del governo è ai minimi storici: un recente sondaggio di United Surveys per Dziennik Gazeta Prawna, mostra che, rispetto a settembre, il PiS (Diritto e Giustizia) ha perso 10 punti percentuali e un crollo di consensi, con un sostegno pari al 30,9%. E, a specchio, è in caduta libera anche la credibilità della Chiesa cattolicail gradimento, registrato in un sondaggio per il quotidiano conservatore Rzeczpospolita, si ferma al 35%. La bocciatura più sonora arriva dai giovani (18-29 anni): appena il 9% ha un’opinione positiva della Chiesa. «Lo zelante sostegno clericale alle guerre culturali del governo sta alienando un numero crescente di fedeli», scrive il Guardian in un pungente editoriale. «Un numero crescente di polacchi, a quanto pare, si sta stancando di essere vittima di bullismo da parte dei vescovi». Altro che “cattolicissima Polonia”. Perfino i vescovi luterani hanno sentito la necessità d’intervenire pubblicamente, ribadendo la necessità di un dialogo pacifico tra la Chiesa cattolica e il governo: «La missione della Chiesa è predicare il Vangelo e plasmare le coscienze, non costringere, imporre la sua volontà o il controllo». 

Il governo, spiazzato, continua a prendere tempo. A oltre un mese dalla decisione della Corte Costituzionale (22 ottobre), inizialmente salutata con l’enfasi che si riserva alle più brillanti vittorie, la sentenza non è stata ancora pubblicata. Evidentemente c’è chi vuole attendere l’evoluzione delle proteste, che ben pochi immaginavano potessero protrarsi così a lungo e con una risonanza che ha varcato i confini nazionali. Resta da capire perché il governo abbia deciso proprio ora d’infilarsi in questa strettoia politica, con una pandemia ancora da affrontare e un’insofferenza sociale difficile da domare. Leah Hoctor, direttrice regionale dell'ONG Center for Reproductive Rights, la legge polacca è stata un tentativo da parte di un piccolo settore della società «di fare politica con la vita delle donne». Una delle rare dichiarazioni “governative” in merito è attribuita a Michał Dworczyk, capo di gabinetto del premier Mateusz Morawiecki: «È in corso una discussioneSarebbe meglio dedicare un po’ di tempo al dialogo e alla ricerca di una decisione, che è difficile e suscita forti emozioni». 

No alla cultura patriarcale 

Forti emozioni e una lacerazione profonda che sta spezzando in due il Paese. Ancora all’inizio di novembre Jarosław Kaczyński, presidente del partito “Diritto e Giustizia”, aveva incitato i suoi elettori (fondamentalisti cattolici e nazionalisti) a «difendere a tutti i costi la Chiesa cattolica», sostenendo che le proteste «sono mirate a distruggere la Polonia». Per dire: al passaggio di una delle manifestazioni antigovernative, a Varsavia, dagli altoparlanti della chiesa di Santa Croce sono state diffuse a tutto volume le grida dei neonati, come a ribadire il primato della vita, a prescindere dalla libertà di decisione della donna, e dei diritti di qualsiasi essere umano. I movimenti femminili, a partire da Ogólnopolski Strajk Kobiet (OSK, in inglese All-Poland Women's Strikenato nel 2016 quando il governo tentò una prima volta, respinto proprio dalle proteste di piazza, la modifica della legge sull’aborto), affiancati dalle migliaia di ragazzi che continuano a gridare la loro contrarietà, non mollano di un centimetro. Il Guardian riporta una dichiarazione di Marta Lempart, avvocato, 41 anni, attivista di Osk, che potrebbe essere il “manifesto” delle proteste: «Penso che sia una reazione collettiva contro una cultura patriarcale, contro lo stato patriarcale, contro lo stato religioso fondamentalista, contro lo stato che tratta le donne davvero male». 

Intanto i manifestanti continuano a denunciare l’uso spropositato di forza e un atteggiamento “aggressivo e provocatorio da parte della polizia”Adam Bodnar, difensore civico e Commissario per i diritti umani, ha espresso preoccupazione per l’impiego «di ufficiali non identificabili», agenti in borghese, probabilmente appartenenti al gruppo “BOA” (Biuro Opearcji Antyterrorystycznych), l’unità della Polizia polacca specializzata in operazioni antiterrorismo. Negli scontri del 18 novembre scorso, questi agenti hanno usato manganelli telescopici e gas urticante contro i dimostranti, ma anche contro giornalisti e parlamentari dell’opposizione, tra i quali la deputata Magdalena Biejat, mentre un agente ha spezzato il tesserino della parlamentare Monika Wielichowska. In quell’occasione il portavoce della polizia polacca, Sylwester Marczak, ha ribadito: «Queste manifestazioni sono illegali, e comunque non pacifiche». Secondo il rapporto finale, i manifestanti avrebbero addirittura messo in pericolo l’integrità fisica degli agenti.

La “fusione” Chiesa-governo sul Recovery Plan

C’è un altro elemento che consente di comprendere come oggi, in Polonia, politica e religione (o meglio: governo e Chiesa cattolica) si muovano in assoluta sincronia, fino a fondersi in un unico fondamentalismo dai confini, per così dire, vaghi, sfumati. Ha fatto scalpore l’uscita dell’arcivescovo di Cracovia il quale, durante un sermone, si è apertamente schierato al fianco del governo e contro l’Unione Europa nella spinosa questione del Recovery Plan: la Polonia, assieme all’Ungheria, non vuol votare l’ok alla concessione degli aiuti straordinari agli stati membri per far fronte alla pandemia, poiché l’Ue ha vincolato la concessione dei fondi al rispetto dello “stato di diritto”. Quello lanciato dall’arcivescovo Marek Jędraszewski ha il sapore dell’anatema: «Collegando il fondo a una controversa clausola sullo “stato di diritto” Bruxelles sta tentando d’imporre una visione neo-marxista di un nuovo ordine che rifiuta il regno di Dio», ha dichiarato, riferendosi poi a un presunto «tentativo europeo di imporre alla Polonia norme e leggi contronatura su gender equality e diritti della comunità Lgbtq». Con i “nemici” che, secondo l’arcivescovo, si annidano a Bruxelles, Berlino, New York

In un reportage del Financial Times pubblicato lo scorso settembre (dunque prima della sentenza sull’aborto della Corte Costituzionale), il giornalista cattolico Szymon Holownia, aveva dichiarato: «Non riesco più a guardare una Polonia in cui la Chiesa cattolica è usata a tal punto da diventare, agli occhi di molti, l’estensione ideologica o spirituale del partito “Diritto e Giustizia”». Mentre Ben Stanley, professore associato di scienze politiche all'Università SWPS di Varsavia, sostiene: «I cattolici moderati sono disgustati dall’intolleranza e dal radicalismo di una Chiesa politicizzata. Vogliono Dio, semplicemente».

Parlare di “polexit” non è più un tabù

Ma al di là degli eccessi resta il dato politico. La Polonia, questa Polonia, è a un bivio. Da un lato il blocco sovranista Chiesa-governo, dall’altro i giovani, le donne, i cattolici moderati e porzioni sempre più consistenti della società civile che chiedono la riaffermazione della laicità dello stato. Ma la partita vera è sulla laicità dello Stato e sul rispetto dei diritti, proprio quelli che l’Unione Europea ha (finalmente) deciso di rendere indispensabili per abitare nella comune casa europea, come materia da condividere e da difendere. Il governo polacco ormai controlla la magistraturanomine pilotate, divieto di partecipare a pubbliche manifestazioni, divieto assoluto di critica su qualsiasi decisione del governo. Esemplare il recente caso del giudice Igor Tuleya, che per aver osato criticare il governo («non ha difeso l’indipendenza dei tribunali, ha lasciato che lo stato di diritto in Polonia fosse calpestato»), è stato punito con il licenziamento in tronco e la revoca dell’immunità. Una frattura che appare insanabile con i princìpi fondanti dell’Unione Europea. Al punto che si comincia a parlare perfino di “Polexit”, vale a dire la possibilità che la Polonia possa lasciare l’Unione Europea (e rischia anche l’Ungheria). Anche se, al momento, appare una strada impervia. Come spiega ancora  il Financial Times: «Nonostante l'aumento delle tensioni, almeno a breve termine, ci sono poche possibilità che la Polonia possa lasciare l’Ue. I sondaggi mostrano che oltre l'80% dei polacchi vuole rimanere, anche più del 78% che ha votato per aderire all’Unione nel 2003». Ma l’argomento non è più un tabù.

 

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