Dicono i soliti bene informati che nei grandi festival internazionali, quando la giuria si trova costretta ad escludere un film dai premi maggiori (premio al miglior film, alla regia), ricorra all’escamotage di premiare un attore, in modo che il film sacrificato possa apparire tra i palmarès. Dicerie di questo tipo circolano con maggior insistenza quando ad essere premiati sono un’attrice o un attore non molto conosciuti, con poco o nessun glamour. Più che essere una sorta di premio di consolazione, questo espediente consente di segnalare le doti di un film capace, grazie alle scelte stilistiche dell’autore, di valorizzare il ruolo dell’attore al di fuori delle logiche divistiche troppo spesso dominanti nei festival.
Qualcosa del genere è accaduto all’ultimo Festival di Cannes con l’assegnazione della Palma d’Oro al miglior attore a Marcello Fonte, attore praticamente sconosciuto, interprete di Dogman di Matteo Garrone, un film di grande impatto grazie a scelte stilistiche rigorose e coerenti al cui interno diventa inutile distinguere i meriti della regia da quelli dell’interpretazione.
A partire dal premio a Marcello Fonte, per il film di Garrone è stato tutto un succedersi di riconoscimenti: otto Nastri d’Argento e la designazione a rappresentare l’Italia al premio Oscar per il miglior film in lingua non inglese. Che non si sia trattato del risultato di alchimie festivaliere lo stanno a dimostrare i premi successivamente assegnati a Marcello Fonte: oltre al Nastro d’argento per il migliore attore a Taormina, il premio Vincenzo Crocitti «all’attore rivelazione dell’anno» a Villa Pamphili a Roma e, pochi giorni fa, a Siviglia il premio EFA (European Film Academy), considerato l’Oscar del cinema europeo.
Quando Marcello Fonte salì sul palcoscenico del Grand Théâtre Lumière per ricevere il premio dalle mani di Roberto Benigni, sotto lo sguardo di una statuaria e regale Khadja Nin, molti si chiedevano chi fosse e da dove venisse questo attore mingherlino, dalla vocina strascicata. Né fu di grande aiuto la sua dichiarazione: «Quando abitavo in una baracca e sentivo la pioggia cadere sopra le lamiere mi sembrava di sentire gli applausi. Adesso quegli applausi sono veri, siete voi. E io sento il calore di una famiglia. Mi sento a casa, la mia famiglia è il cinema».
A che cosa alludesse ora lo sappiamo, da quando ha pubblicato nella collana “Stile libero” di Einaudi il romanzo autobiografico Notti stellate. Qui ci viene narrata l’infanzia di Marcello che si è svolta nella fiumara di Marrani, presso Reggio Calabria. In una notte di tempesta, il piccolo Marcello, per ripararsi dall’acqua che cade dal tetto, si infila sotto le coperte del letto della nonna che lo abbraccia e lo stringe a sé, chiude gli occhi e le gocce che scrosciano sulle lamiere gli sembrano un lungo applauso di centinaia di persone.
Marcello Fonte fa partire da qui il suo sogno di diventare attore. Un sogno proibito per un ragazzo che è vissuto in una sorta di discarica, ultimo di cinque fratelli, tra carcasse di elettrodomestici, auto rottamate e zolle di terra sulle quali il padre cercava di far crescere e maturare dei pomodori. Un giorno questo ragazzo parte e raggiunge a Roma il fratello Antonio, che tempo addietro era fuggito di casa e con il suo lavoro era riuscito a pagarsi gli studi nella facoltà di architettura e a diventare scenografo. A Roma Marcello vive di espedienti, abita in uno scantinato del Nuovo Cinema Palazzo nel quartiere San Lorenzo, facendo “lavoretti” di tutti i tipi e ottenendo qualche piccolo ruolo a Cinecittà, per lo più come comparsa. Trova lavoro come aiutante presso la compagnia teatrale dei detenuti di Rebibbia. Essendo venuto improvvisamente a mancare un attore, viene chiamato a sostituirlo, cosa che può fare senza problemi perché a forza di assistere alle prove ha imparato la parte a memoria. Ed è qui che Matteo Garrone, che cercava il protagonista del suo film sul canaro della Magliana, lo incontrò e gli affidò la parte.
C’è chi ha evocato il neorealismo e le sue mitologie dell’attore preso dalla strada. Ma la collaborazione tra Marcello Fonte e Garrone assomiglia piuttosto a quella che si instaurò tra Pasolini e Franco Citti in Accattone. In ambedue i casi gli apporti gestuali e linguistici dell’attore vengono assimilati dal regista che li traspone sul piano della propria poetica: una visione sacrale della quotidianità del sottoproletariato nel caso di Pasolini; un iper-naturalismo capace di improvvise accensioni espressionistiche e di altrettanto improvvisi intenerimenti lirici e intimistici nel caso di Garrone (i rapporti di Marcello con l’amatissima figlioletta Aida o il suo interloquire con i cani che amorevolmente accudisce).
Ma non stanno evidentemente qui le ragioni della risonanza anche mediatica avuta dall’irruzione di Marcello Fonte sulla scena cinematografica italiana. Nel suo caso, l’atipicità di una parlata fuori di ogni regola di corretta dizione e una gestualità che evidenzia la fragilità di un corpo minuto, costantemente sopraffatto dal gigantismo del suo antagonista Simonino (Edoardo Pesce) si combinano con una singolare biografia che gli si adatta come una seconda pelle. È disarmante la semplicità con la quale Marcello sa raccontare la sua straordinaria avventura che dalla fiumara di Marrani lo ha condotto, passando per gli scantinati dei centri sociali di Roma, al red carpet di Cannes. Probabilmente c’è da attendersi molto da questo attore, la cui vita disagiata degli anni romani non gli ha impedito, prima dell’incontro con Garrone, di realizzare, in collaborazione con Paolo Tripodi, Asino vola, un film autobiografico che ora, grazie al successo di Cannes, potrà avere finalmente una distribuzione regolare e potrà riservarci nuove sorprese.