SCIENZA E RICERCA

L’Artico, un ecosistema a rischio: nel 2020 nuovi record negativi

Il 2020 è stato il secondo anno più caldo mai registrato: è quanto ha annunciato, sul finire di questo incredibile anno, la NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), l’agenzia federale statunitense che si occupa di meteorologia e climatologia.

Quello appena concluso è stato un annus horribilis anche sul fronte della crisi climatica. Numerosi sono i primati registrati: il novembre 2020 è stato il secondo più caldo di sempre (superato solo dal novembre 2015), con una temperatura di 0,97°C superiore rispetto alla media del ventesimo secolo; nel corso dell’intero anno, la temperatura globale della superficie terrestre e oceanica è stata di 1°C al di sopra della media del secolo scorso, «il che – si apprende dal sito della NOAA – la rende la seconda più calda in 141 anni di registrazioni, appena 0,01°C inferiore rispetto alle misurazioni relative al 2016».

Tutto questo ha avuto ripercussioni particolarmente evidenti in alcune zone del pianeta, più sensibili alle modificazioni climatiche, come la regione Artica: al di sopra del Circolo Polare Artico, infatti, gli effetti della crisi climatica sono più rapidi che nelle zone temperate del pianeta, e i cambiamenti si fanno di anno in anno più profondi e drammatici. È quanto emerge dall’ultimo rapporto sull’Artico curato dalla NOAA, l’Arctic Report Card 2020, composto da un Executive Summary e sedici articoli che approfondiscono diversi temi, tra cui lo scioglimento dei ghiacci, l’erosione del permafrost costiero, l’aumento degli incendi e i mutamenti nella biologia degli ecosistemi artici.

L'intervista a Gianluca Meneghello. Servizio di Sofia Belardinelli, montaggio di Elisa Speronello

I dati raccolti nel corso dell’anno confermano innanzitutto la tendenza, già documentata negli anni scorsi, all’aumento delle temperature: durante il periodo estivo del 2020, l’estensione della superficie marina ricoperta da ghiacci è stata la seconda più ridotta mai registrata, superata solo dal minimo del 2012; inoltre, la temperatura media della superficie marina ad agosto 2020 è stata di circa 1,3°C più alta rispetto alla media dello stesso periodo degli anni 1982-2010. Questo aumento della temperatura delle acque artiche ha coinciso con un aumento della produzione primaria marina, della quale hanno beneficiato le popolazioni di balene artiche (Balaena mysticetus) tipiche della regione, che mostrano infatti segnali di ripresa. Anche sulla terraferma i cambiamenti sono evidenti: a causa di una primavera eccezionalmente calda, la copertura nevosa del mese di giugno 2020 è la minore mai registrata nell’Artico eurasiatico; in concomitanza con i devastanti incendi che si sono verificati nell’estremo nord della Russia si sono registrate temperature atmosferiche inusitatamente alte per la zona; nei ghiacciai della Groenlandia il ritmo di scioglimento del ghiaccio è stato più sostenuto rispetto alla media degli anni 1981-2010, pur non superando i picchi del 2018 e del 2019. Anche i ghiacciai di Alaska e Canada sono stati interessati da significativi fenomeni di scioglimento.

«L’artico sta cambiando molto velocemente», spiega Gianluca Meneghello, ricercatore in oceanografia al MIT (Massachussets Institute of Technology) di Boston, USA. «Vi sono molti meccanismi dei quali ancora non comprendiamo pienamente il funzionamento, ma l’analisi dei dati a nostra disposizione mostra con evidenza che il cambiamento è effettivamente già in atto, e che è molto rapido». Tutto questo, sottolinea il ricercatore, è di importanza cruciale non solo da un punto di vista scientifico: «Questi cambiamenti stanno conducendo a una rivoluzione nell’utilizzo dell’Artico: con lo scioglimento della copertura glaciale, l’accesso alla regione diventa più semplice ed immediato, e di conseguenza crescono gli interessi economici e, con essi, l’importanza geopolitica di questo territorio. Ad esempio, è recente la notizia dell’apertura, da parte dell’amministrazione uscente degli Stati Uniti, alla vendita dei diritti per l’estrazione di petrolio in alcune aree protette dell’Alaska».

Meneghello prosegue: «In un’ottica di tempo geologico, i mutamenti a cui stiamo assistendo non sono un unicum: fra i 3 e i 5 milioni di anni fa, ad esempio, la regione Artica era molto più calda di com’è ora, ed era ricoperta da una fitta vegetazione. Oggi, tuttavia, vediamo mutamenti il cui carattere inedito è la rapidità: si tratta di un fenomeno che risale agli ultimi 150 anni, un lasso di tempo breve non solo in una scala geologica, ma anche rispetto alla storia umana. Non siamo in grado di prevedere quali conseguenze un cambiamento così ampio e repentino potrebbe generare sugli ecosistemi, e quali riflessi ciò potrebbe avere sulle società umane».

Un altro fattore di preoccupazione riguarda la complessità dei fenomeni climatici: nessuna modificazione, infatti, rimane isolata, ma comporta sempre delle conseguenze. «Man mano che la situazione cambia, i meccanismi di feedback già in atto vanno incontro ad una costante accelerazione», afferma Meneghello. «Pensiamo alla relazione che lega lo scioglimento dei ghiacci e il riscaldamento dell’oceano: i due fenomeni si alimentano a vicenda, perché lo scioglimento dei ghiacci provoca una diminuzione dell’effetto albedo e dunque un aumento della temperatura delle acque superficiali, il che a sua volta causa un ulteriore scioglimento del ghiaccio. Inoltre, bisogna tenere in considerazione il fatto che non si sta verificando soltanto un aumento della temperatura media globale, ma si sta anche ampliando la variabilità tra le temperature massime e minime registrate, così come la possibilità che si verifichino eventi meteorologici estremi: queste variabili, inserite nel contesto di un sistema complesso, sono difficili da prevedere».

Tutto questo potrebbe avere, come accennato, effetti drammatici anche al di fuori delle zone artiche; i cambiamenti si stanno verificando a una velocità molto maggiore rispetto alle previsioni, e questo è senz’altro un campanello d’allarme, come lo stesso report della NOAA sottolinea. «Nell’Artico, gli effetti del cambiamento climatico si verificano in modo più veloce e amplificato rispetto alle altre regioni del pianeta: studiarne gli effetti è dunque importante non solo per monitorare questo ecosistema, ma anche per capire cosa potrebbe accadere nel resto del mondo nei prossimi decenni», conclude il ricercatore. «Già ora, inoltre, quel che accade al Polo Nord ci interessa anche direttamente: i sistemi climatici delle varie zone della Terra sono, infatti, strettamente collegati l’uno all’altro, motivo per cui è probabile che le anomalie registrate in un luogo abbiano conseguenze non trascurabili anche in regioni relativamente lontane. Ecco perché bisogna prestare attenzione a quel che avviene nell’Artico e cercare di mitigare, per quanto possibile, il cambiamento».

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