SOCIETÀ

Baci, abbracci e spiagge affollate, ma il virus circola ancora

Un senso di disagio, misto a un poca di incredulità. È ciò che provano molti di noi, in questo periodo, quando incontrano gli amici, magari dopo molto tempo, e loro – come se a dividerci non fosse stata una pandemia globale che causa ancora morti in tanti Paesi del mondo – si avvicinano e ci abbracciano, quasi fosse il gesto più naturale del mondo, e ci avvinghiano lasciando lo spazio di pochi centimetri tra il nostro volto e il loro. C’è chi si toglie dall’imbarazzo evitando grossolanamente il contatto fisico (con il rischio di sembrare scortese) e chi invece accampa una scusa qualsiasi (che non avrebbe ragione di essere) per sciogliersi dalla morsa. Questo quando siamo fortunati, dato che i più arditi azzardano pure qualche bacio. Complice la stagione estiva, può accadere che ci venga proposto di trascorrere una giornata al mare o, di più, una vacanza in comitiva. E lì per noi – che ci laviamo le mani fin troppo spesso, che usiamo la mascherina ovunque sia richiesto, e anche all’aperto quando è necessario, e raccomandiamo tuttora ai nostri genitori di evitare gli assembramenti e di non uscire troppo – sorgono le “difficoltà”. Perché fare una passeggiata a riva o appoggiare un asciugamano per godersi un po’ di sole significa immergersi in un bagno di folla in cui ogni buona regola di distanziamento sociale rimane frequentemente inosservata. Basta dare un’occhiata a Facebook per rendersene conto o soffermarsi sulle immagini riportate dai media, che si riferiscono a molte delle località balneari italiane. O, più semplicemente, ascoltare i racconti di chi ci è stato. Nella percezione comune, tutto sembra rientrato nella normalità: le località turistiche sono prese d’assalto, i ristoranti gremiti e la movida serale non è più ormai una novità. Nulla di eccezionale se venissero osservate le misure di contenimento dell’infezione da Sars-CoV-2 tuttora in vigore, ma le scelte di comportamento dei singoli appaiono alquanto fantasiose e rilassate. Lasciando, paradossalmente, chi osserva le regole quasi nella posizione di doversi giustificare.

Eppure, con circa 11 milioni di casi a livello globale e oltre 520.000 decessi, è evidente che la pandemia da Covid-19 non è ancora del tutto superata, sebbene nel nostro Paese – hanno osservato recentemente scienziati come Antonella Viola e Andrea Crisanti – la situazione si possa definire sotto controllo e l’Italia sia più preparata per affrontare nuovi focolai. E in effetti i nuovi focolai in queste ultime settimane non sono mancati, da Roma a Bologna, da Mantova a Mondragone, oltre che in altre parti d’Europa. Nonostante la malattia tenda a manifestarsi ora in forma meno grave, serve dunque cautela perché il virus non si è estinto e non è sparito. Se si allarga lo sguardo al resto del mondo, si vedrà infatti che la situazione in molto Paesi è ancora molto grave, a cominciare dagli Stati Uniti e dal Brasile dove si registra il numero maggiori di contagi a livello mondiale.

A fronte di questa situazione – e dopo alcuni mesi di lockdown – in Italia il Dpcm dell’11 giugno ribadisce le misure necessarie a contenere la diffusione del nuovo virus, e tra queste raccomanda ancora il distanziamento fisico, l’igiene costante, l’impiego di mascherine nei luoghi chiusi accessibili al pubblico e ogniqualvolta non sia possibile mantenere la distanza di almeno un metro. La normativa fornisce indicazioni specifiche per le strutture ricettive, per le attività turistiche e di ristorazione, solo per limitarci agli ambiti che qui sono di nostro interesse. Nei ristoranti (ma anche nei pub, nelle pasticcerie, nelle gelaterie), per esempio, i tavoli devono essere disposti in modo tale da garantire almeno un metro di separazione tra i clienti (distanza che può essere ridotta solo se si ricorre a barriere fisiche), e i clienti a loro volta devono indossare la mascherina quando non sono seduti al tavolo. Negli stabilimenti balneari, invece, deve essere garantita una superficie di almeno dieci metri quadrati per ombrellone, e di almeno un metro e mezzo tra le attrezzature della spiaggia (come i lettini o le sedie a sdraio) quando non sono posizionate nel posto ombrellone; viene raccomandata la disinfezione frequente delle aree comuni e delle attrezzature da spiaggia a ogni cambio di persona e comunque a fine giornata. “Per quanto riguarda le spiagge libere – si legge nel decreto – si ribadisce l'importanza dell'informazione e della responsabilizzazione individuale da parte degli avventori nell'adozione di comportamenti rispettosi delle misure di prevenzione. Al fine di assicurare il rispetto della distanza di sicurezza di almeno un metro tra le persone e gli interventi di pulizia e disinfezione dei servizi eventualmente presenti si suggerisce la presenza di un addetto alla sorveglianza”. E anche nelle spiagge libere gli ombrelloni devono essere opportunamente distanziati. Ma se queste sono solo alcune delle indicazioni fornite dal Dpcm dell’11 giugno (che qui ci siamo limitati a riportare marginalmente), ognuno sembra interpretare la norma a modo proprio. O, nei casi peggiori, scordarsene del tutto.

Abbiamo provato ad analizzare le ragioni di questi comportamenti individuali con Alberto Voci, docente di psicologia sociale all’università di Padova. “Prima di tutto – spiega – c’è una motivazione di fondo che è la volontà di tornare alla normalità, dopo un periodo di lockdown che, con le sue restrizioni, ha ovviamente portato disagi alle persone. E, al di là di questa spinta psicologica, esistono anche aspetti di natura economica. Il punto fondamentale è che queste spinte motivazionali inducono a comportarsi come se il virus non esistesse, mentre non è così. E in questo senso, credo abbiano contribuito anche i messaggi contraddittori provenienti da esperti o politici”.

Il virus, osserva il docente, di per sé è invisibile, ma se ne possono vedere gli effetti e le conseguenze, ben evidenti durante il periodo di lockdown. “Abbiamo tutti davanti agli occhi i reparti di terapia intensiva al collasso, le immagini e le storie delle persone morte a casa, magari in solitudine, i camion dell’esercito che trasportavano le bare fuori da Bergamo. Quelli erano indizi visivi chiari della presenza del virus e, a parte qualche complottista, tutti ne eravamo perfettamente consapevoli. Il clima sociale normativo, di conseguenza, era pervaso dal rispetto delle regole, tanto che i trasgressori erano trattati quasi con odio, con disprezzo. Basti pensare ai vari comportamenti di delazione che ci sono stati o addirittura alle aggressioni subite da chi insisteva a svolgere attività fisica all’aperto. Essendo il virus molto saliente nelle sue conseguenze, c’era un clima che portava a rispettare le regole nel modo il più possibile rigido”.

Ora invece, osserva Voci, quelle immagini non circolano più, appartengono al passato, e questo da un punto di vista psicologico genera “scorciatoie di pensiero” (euristiche) che inducono a interpretare la realtà sulla base di ragionamenti più o meno fallaci. “In particolare, a entrare in gioco è l’euristica della disponibilità, secondo cui ciò che è immediatamente disponibile e visibile viene ritenuto importante, diffuso, potente”. Durante il lockdown certe immagini facevano ben capire che il virus circolava. Ora, invece, non essendo più così frequenti, si è portati a pensare che l’emergenza sia finita e a comportarsi di conseguenza.

Il docente adduce ulteriori motivazioni e osserva che, al di là delle leggi, esistono anche norme sociali,  norme descrittive nello specifico, che indicano all’individuo cosa sia giusto o sbagliato fare a partire dal comportamento di chi gli sta intorno. Nel periodo di lockdown tutti indossavano la mascherina e i comportamenti erano improntati alla massima prudenza. Ci si sentiva accomunati dallo stesso destino e ci si atteneva alle stesse regole. Ora invece molte persone si disinteressano, fondamentalmente, delle protezioni e del distanziamento sociale: ma se più individui agiscono in questo modo, più la norma descrittiva diventa stringente e induce a pensare che tale comportamento sia accettabile. E chi è nel dubbio tende a conformarsi al comportamento degli altri, per il timore del ridicolo e dell’esclusione sociale.

“C’è poi un ultimo aspetto – sottolinea Voci –, un aspetto culturale abbastanza diffuso, sebbene non pervasivo, e cioè una concezione di tipo individualistico, secondo cui se si vuole qualcosa si ha diritto a ottenerla. In quest’ottica ora, dopo le privazioni del lockdown, se una persona ha il desiderio di recarsi al mare, o di bere un aperitivo con gli amici o di andare in un luogo affollato, ritiene sia suo diritto poterlo fare. Questo si combina con l’invisibilità del virus, con l’euristica della disponibilità e con le norme sociali. La questione fondamentale è che l’individuo percepisce questo suo diritto, senza però tener conto delle conseguenze sugli altri e su se stesso di determinati comportamenti”.

Cosa fare dunque? “Prima di tutto c’è un clima generale che andrebbe modificato – osserva Voci –. Nel senso che se anche i politici sostengono che la seconda ondata non ci sarà, che in realtà i rischi di un ritorno al lockdown sono praticamente assenti, è chiaro che una persona si sente giustificata a comportarsi come se niente fosse. Credo che il punto fondamentale sia fornire delle prove concrete dell’esistenza del virus, e ciò significa informare la collettività sui morti, magari sui pazienti in terapia intensiva (il numero dei positivi ormai fa meno presa da questo punto di vista). Sarebbe importante far capire quello che è successo e sta succedendo in altre nazioni, penso agli Stati Uniti o al Brasile, dove il mancato rispetto delle regole (ammesso che le regole fossero stringenti come da noi) ha portato a conseguenze drammatiche”.

Secondo Voci, dunque, una corretta comunicazione è fondamentale. “Sto sentendo alcuni politici, anche Zaia, usare toni preoccupati e ciò potrebbe lasciare perplessi, se si guarda ai casi che sono in diminuzione. Si deve tener conto, però, che nei mesi scorsi eravamo abituati a migliaia di morti al giorno e ai contagi che crescevano in modo esponenziale. Ora 12 morti e 100 positivi in 24 ore ci sembrano dati minimi. In realtà, ciò significa che il virus sta ancora circolando e questa è un’informazione che dovrebbe essere resa maggiormente saliente”.

Infine, conclude il docente, è necessario pensare al bene comune e non solo al bene individuale, sebbene questa sia una mentalità non particolarmente diffusa in Italia. “Molte persone, tuttavia, sono sensibili a questa tematica e credo che una sorta di identità più inclusiva, che faccia capire che i comportamenti del singolo hanno delle conseguenze sulla collettività, potrebbe portare a una maggiore responsabilizzazione”.   

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