CULTURA

Benjamin Malaussène: guida alla lettura dei sette romanzi di Daniel Pennac

Benjamin Malausséne non smette di stupirci, si accommiata da tutti a proprio modo. Lo abbiamo conosciuto meno di quarant’anni fa quando lavorava già da un po’ come capro espiatorio e, nel tempo libero, faceva soprattutto da figura genitoriale ai tanti fratelli e sorelle abbandonati dalla madre (anche sua). Abbastanza presto aveva cambiato mestiere retribuito e mantenuto l’unica passione per Julie (la rossa giornalista originaria del Vercors; Pennac e signora vi vivono spesso ancora), ormai da decenni si esercita da dipendente tuttofare delle Edizioni del Taglione della Regina Zabo, esegue ordini editoriali, legge e valuta, tratta con scrittori grandi e piccoli, condivide occasioni e drammi della letteratura contemporanea, esercita comunque anche la funzione essenziale di capro espiatorio nell’azienda, domandandosi di continuo se non è il cado di smettere, sempre però travolto da fantasmagoriche avventure di parenti stretti e dei sapiens della tribù allargata.

Averlo inventato costituisce la meritata fortuna dell’esimio scrittore francese Daniel Pennac (Casablanca, Marocco, 1 dicembre 1944). Abbiamo già parlato della bio-bibliografia dell’autore, concentrandoci sull’insieme della produzione letteraria di mezzo secolo (1973 - 2023) e, in particolare, su saggi e romanzi senza Ben, il suo principale personaggio . Ora non si può più rinviare, il capro espiatorio va preso di petto e sviscerato un poco. Cominciamo dalla fine, andando a ritroso nel tempo. Partiamo dall’epilogo dichiarato della saga, dal settimo e ultimo romanzo, uscito con grande successo (è ancora in classifica) oltre due mesi fa: Daniel Pennac, Capolinea Malaussène. Il caso Malaussène 2, traduzione di Yasmina MelaouahNoirFeltrinelli 2023 (orig. Terminus Malaussène. Le cas Malaussène 2, 2023)pag. 397)

Siamo lontani dalle Alpi, dalle parti di Parigi, dentro e ai lati del cuore, ovvero nel XX° arrondissement. Verso il settembre 2021 (a otto mesi dalle elezioni presidenziali del 2022) abbiamo un pratico riassunto delle storie raccontate nel precedente volume: in scena il rapimento interrotto e ripreso del ricco sgargiante Georges Lapietà (che conosce a memoria l’elenco dei potenti corrotti) e la rischiosa rifinitura (ora lontano dal Vercors) del secondo romanzo-verità (terribile) del brasiliano Alceste Fontana, insieme a ogni anfratto e risvolto di tutte le vecchie note avventure dell’intera famiglia allargata. L’uomo d’affari era stato rapito dallo stesso figlio Iuc con gli amici Mara, Nange e Sigma, per fare una spettacolare opera d’arte. Solo che alcuni veri malviventi avevano compiuto la stessa scelta e ne era venuto fuori un gran casino. 

Il capo dei cattivi è Nonnino, età vetusta e voce dolce, amante di gratin dauphinois, violento e implacabile, ha un esercito colto e fedele di delinquenti ai suoi ordini, li ha educati alla verità cash e formati professionalmente, li guida con risolutezza nera, possiede svariati nomi e identità, ha agganci internazionali e coperture insospettabili. Ispettori e magistrati, bravi e somari, cercano di essere all’altezza. Ben soprassiede ancora come sempre a Julius il Cane (pronipote dell’originale), al dormitorio familiare e all’orfanatrofio annesso; nella banda dei ragazzi c’erano il figlio e i cugini, Mara (incinta) sta con Iuc; dovrà occuparsi del rapimento.

Come sempre Malaussène “capofamiglia” si fa carico di tutto, ogni suo parente ha spesso sfiorato la morte, si vede scorrere davanti agli occhi il catalogo di esplosioni, massacri, violenze. Da dipendente tuttofare delle Edizioni del Taglione della Regina Zabo ha avuto ora soprattutto l’incarico di procrastinare l’uscita del libro (“La loro grandissima colpa”), in cui Fontana racconta senza metafore non solo i pessimi comportamenti della propria stessa parentela, otto fratelli (tre femmine e altri quattro maschi) e due genitori che li hanno adottati, ma anche i traffici sui piccoli calciatori rapiti in Brasile. La bella attempata irrequieta mamma dei sette figli si è rifatta viva: mentre accudisce il marito Paul (innamorato, un poco rimbambito agli Aliossi, residenza per anziani), fa le solite cazzate. Fuochi pirotecnici, arriva di tutto. Pure le bombe.

Daniel Pennac (Casablanca, 1944) chiude il cerchio (da cui il titolo) e narra meravigliosamente un’ultima gustosa avventura contemporanea della serie che iniziò col noir e si è sempre arricchita di realismo magico. All’inizio del romanzo odierno mette il riassunto del volume precedente (2016) e la figura genealogica, in fondo la semplificante ripetizione del repertorio delle denominazioni e definizioni dei mitici personaggi seriali “inventati” (ben oltre il centinaio), citati o evocati, di qualche luogo e archetipo. Con la travolgente lettura manteniamo così memoria di amorevoli storie noir (l’autore termina ringraziando chi lo accolse 40 anni fa nella cantina della Série Noire), di fiabe ironiche e horror, di avventure mirabolanti intorno al mondo, di empatiche figure inevolvibili, di significati multisenso e impatti multisensoriali, di dialoghi scoppiettanti e colpi di teatro, di scene orride o poetiche in luoghi metropolitani e naturali, oltre che degli innumerevoli sfaccettati battiti dei silenzi (saturi, logorroici, cinematografici, invasori, lunghi, pensosi, divertiti). 

La narrazione s’avvia in terza persona su Nonnino; segue poi Ben in prima (come sempre); si occupa degli altri amici e sodali in terza; continuando ad alternarsi punti focali, scene e sequenze in quaranta capitoli e otto parti, l’ultima inevitabilmente intitolata alla “mamma” (che ha finora trascorso con figli e nipoti meno di mille giorni, non più di trenta mesi con la sua progenie), ogni parte con una frase del relativo testo in esergo. Ognuno dei precedenti romanzi della serie (1985, 1987, 1989, 1995, 2017; all’inizio anni diversi in Italia, ma sempre con la stessa straordinaria traduttrice, madre astigiana e padre tunisino, il cui nome sembra ma non è tratto dalla saga) trova riferimenti e agganci, pur se Ben non è più il giovanotto versatile che può cambiare lavoro come cambia umore; da qualche decennio si smazza autori celebri; è un essere sociale, un definitivo capofamiglia, un uomo con dei doveri, ligio alle sue responsabilità. 

Ancora una volta è cruciale Verdun, la giudice Talvern, incaricata del caso Lapietà, minuscola saggia sorella di Ben (la più giovane, nata urlante nel secondo romanzo della serie), moglie di un enorme professore panettiere (all’altra sorella Thérèse, pure di padre ignoto, era stato dedicato la quinta novella della serie). Verdun aveva detto che “vivere significa passare il tempo a riempire i due piatti della bilancia”, arrivata a fine carriera è costretta a cambiare ancora vita, in meglio e con altre bilance. Segnalo il Père-Lachaise che plana più volte di notte sulle vie di Belleville, suscitando forse un qualche ulteriore stupore. Il calvados viaggia sugli 80 gradi. Il colonnello Nonnino gestisce anche i cori, Vivaldi e Vedrò con mio diletto sono utili a farsi reclutare. Sarebbe interessante descrivere se e come finisce lo scoppiettante romanzo, evitiamo! Torniamo indietro, piuttosto.

Nel 2017 era uscito Il caso Malaussène. Mi hanno mentito (stesso autore, stessa traduttrice e stesso editore, ovviamente), pag. 279, euro 18,50, ambientato a Parigi e nel Sud Vercors, Prealpi del Delfinato (sotto il Grand Veymont, 2346 m slm). Lì siamo verso il settembre 2016 (dal che si capisce che le datazioni storiche hanno tutte molto di arbitrario). In rue des Archers una banda rapisce appunto Georges Lapietà, uomo d’affari, ex ministro e consulente del gruppo LAVA. La lista di chi si era inimicato è lunghissima, a cominciare dagli ottomilatrecendodue dipendenti mandati a spasso quando ha chiuso le filiali che aveva rilevato per la cifra simbolica di un euro con la solenne promessa di non toccare i posti di lavoro. Come riscatto vengono chiesti ottocentosettemiladuecentoquattro euro, cifra corrispondente all’assegno che stava per intascare come paracadute d’oro per quei licenziamenti. Benjamin Malaussène lo scopre lontano tramite gli organi d’informazione, personalmente lui non c’entrava niente. 

In quei giorni ha avuto l’incarico dalla sua capa editoriale di mettere al sicuro in un luogo segreto, un’inaccessibile area montana che solo lui ben conosce, lo scrittore Alceste Fontana, che ha appena pubblicato “Mi hanno mentito” e sta completando proprio l’atteso seguito (“La loro grandissima colpa”), racconto senza metafore dei pessimi comportamenti della propria stessa famiglia. Ben parla via skype con i nipoti Mara e Nange e con il figlio Sigma, volontari di belle Ong in tre varie lontane parti del mondo. Agogna solo di poterli presto riabbracciare, alla rentrée. Fatto sta che, pochi giorni dopo, due bravi poliziotti sottraggono alla legge i sequestratori per scarrozzarli con l’ostaggio (in un veicolo rubato da un collega) e nasconderli in un orfanatrofio per ordine di un giudice istruttore che non ha intenzione di deferire l’evento. Non è che l’ideale colpa sarà di Malaussène? Ca va sans dire!

Pennac già riuscì allora nel (quasi) impossibile. Venti anni dopo fece tornare protagonisti di una storia contemporanea i personaggi che lo avevano reso amatissimo e famoso in discreta parte del mondo (compresa l’Italia). A suo tempo, sette anni fa iniziammo la lettura con perplessità e diffidenza. Una prima questione viene risolta dal Repertorio iniziale, una decina di pagine con il centinaio degli “antichi”. Poi si comincia in terza persona, il rapimento dello squallido ridicolo in bermuda e canna da pesca; segue Ben in prima (come sempre), accanto al tipo da proteggere, certo antipatico ma ogni lavoro va accettato; poi un’altra prima persona, proprio Alceste, lo scrittore braccato che vuol raccontare solo l’effimero reale, convive con la calamita Ben e ne è (quasi) l’esatto opposto. 

Sensate innovazioni narrative, coerenti con quel che via via si scopre, l’oscurità delle proprie storie, al centro tanto non può che esservi il moderno capro. Ritroviamo amici sdoppiati, cresciuti bambini e replicanti, già cruciale Verdun, le nuove questioni sociali da far risaltare con perizia. Segnalo il manifesto dei rapitori, a pag. 152-153. E tante parole bretoni. Il commissario in pensione Rabdomant sta scrivendo un libro sul Caso (l’errore giudiziario), se ne parla spesso; dunque quello era solo l’inizio, da cui il romanzo conclusivo odierno, come allora si evinceva dal titolo francese (Le Cas Malaussène. I. Ils m’ont menti), dalla vignetta finale e dall’incerta spietata condizione di Lapietà. Il precedente romanzo, quinto della serie, risaliva al 1999, La passione secondo Thérèse, più breve, originariamente realizzato per Le Nouvel Observateur a puntate quotidiane, poi rielaborato e arricchito per la pubblicazione in libro con illustrazioni di Jean-Philippe Chabot.  

Era un periodo di stanca per il lavoro di capro espiatorio dal cranio di ferro, Ben era divenuto padre, una svolta. Anche l’avventura precedente non era nata come opera letteraria, bensì teatrale, essenziale tuttavia per seguire il personaggio. Fra il quinto e il quarto non dimenticate la paternità di Ben! Siamo a metà anni Novanta, Ben sta leggendo su una panchina il libro intitolato al suo Signor figlio. Racconta di quando il fratello Jérémy gli chiede spiegazioni su come nascono i bambini, di come la futura nonna ha fatto sette figli con compagni diversi, di chi ha fatto tifo e di chi ha messo i bastoni fra le ruote. Cerca di darci l’idea di cosa si prova quando si sta per diventar padre: l’annunciazione, la presentazione (soprattutto alla madre Julie), la desolazione (quasi un aborto spontaneo?), la risurrezione (nella pancia di una suora), l’apparizione. 

Il monologo teatrale Monsieur Malaussène au théatre (dialogo dell’unico attore con le ecografie del suo nascituro) risultò una straordinaria pièce che Pennac si è divertito molto a scrivere, noi a leggere e vedere: il compendio dei pensieri sulla gravidanza del protagonista, con sensibilità e lirismo a contrappunto delle crude dinamiche fisiche dell’esistenza. debuttò nell’ottobre 1996 a Parigi, poi a luglio 1997 al festival di Spoleto e in vari teatri italiani, grazie all’adattamento dell’Archivolto di Genova (pubblicato in Italia insieme a un racconto a quattro mani, come “Ultime notizie dalla famiglia”). In Francia l’autore era in sala tutte le sere (in fondo, nascosto), in Italia il magnifico interprete fu Claudio Bisio, eravamo all’anteprima di umbra. Si parla molto della paternità responsabile, anche se si capisce che la vera fatica ed esperienza irripetibile è la maternità. Da un uomo a ogni sapiens, ironie e paure di fine secolo. Tra nuvole di cartapesta. Non fermiamoci ai ricordi, continuiamo ad andare indietro nel tempo.

I primi romanzi della serie Malaussène rappresentano un unicum compatto e conseguente, pensato e iniziato a scrivere quarant’anni fa (nel 1983) e completato in un decennio, definito dallo stesso Pennac come un quartetto, le quatuor de Belleville: il corposo Monsieur Malaussène (1995), La Petite Marchande de prose (1989), La Fée Carabine (1987), con cui vince il prestigioso “Premio Polar di Le Mans, Au bonheur des ogres (1985), il “giallo” originato dall’iniziale scommessa con gli amici del giallo e del noir. Uno più bello dell’altro, un susseguirsi di fiabe e sogni e sfumature e tonalità e interrogativi comunitari e dubbi morali e dialoghi scoppiettanti, scartando per tanti percorsi culturali dentro una sola multiforme trama, come la vita, un compatto effluvio di fantasia narrativa e di acume sociale, che ha consacrato l’autore fra i grandi del Novecento e deliziato milioni di lettori e lettrici.

Pennac viveva e scriveva già da qualche anno in collina nell’allora poco noto quartiere parigino di Belleville, nel ventesimo arroindissement di Parigi, non lontano dal promontorio da cui si vede tutta la città da nord a ovest. Vi abiterà per decenni ed è proprio in questo cosmopolita e multiculturale quartiere-speranza che colloca il protagonista della saga: colline un tempo coperte di vigneti, poi focolaio di tutte le rivoluzioni, antiche radici operaie e patria di chansonniers, meta di immigrati spesso forzati alla migrazione (nel corso del tempo armeni, ebrei, algerini, neri, cinesi, vietnamiti e via di seguito), microcosmo per decenni degradato e tollerante, descritto anche nelle trasformazioni edilizie e speculative e nella sua permanente biodiversità sensoriale, sempre privilegiando metafore per le crude dinamiche sociali. 

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