SOCIETÀ

Biden, l'Europa e il doppio confronto Putin/Erdogan

Sull’agenda di Joe Biden, colma di appuntamenti per il primo tour europeo della sua presidenza (ieri l’incontro con il premier britannico Boris Johnson che ha portato alla firma della nuova Carta Atlantica), ci sono due colloqui programmati che spiccano per importanza e delicatezza: quello con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan (il 14 giugno a Bruxelles, a margine del vertice Nato) e il bilaterale di mercoledì 16 giugno, a Ginevra, con il leader russo Vladimir Putin. Europa, Turchia, Russia: tre tasselli indispensabili, ciascuno a suo modo, di un puzzle di relazioni internazionali che la Casa Bianca si trova oggi a dover rinsaldare, riscrivere e ridefinire dopo le turbolenze dei quattro anni di presidenza Trump. La strategia di Biden è piuttosto chiara, riassunta da lui stesso in un editoriale apparso alcuni giorni fa sul Washington Post: «In questo momento di incertezza globale, il mio viaggio in Europa vuole dimostrare il rinnovato impegno degli Stati Uniti verso i nostri alleati e partner, per rafforzare la capacità delle democrazie di affrontare le sfide e arginare le minacce di questa nuova era»

Parla di minacce Biden. E ne individua una su tutte: la Cina. «Ci assicureremo che siano le democrazie con il libero mercato, non la Cina o chiunque altro, a scrivere le regole sul commercio e la tecnologia del ventunesimo secolo», scrive ancora il presidente americano. Per far questo, naturalmente, deve avere il pieno appoggio della Nato e dell’Unione Europea. Obiettivo solo all’apparenza semplice: si tratta di ricucire relazioni indebolite dalle piroette del quadriennio trumpiano, sempre nel tentativo di chiudere la strada ai tentativi d’infiltrazione di Pechino nel vecchio continente, alcuni dei quali in fase assai avanzata, come il Cai (Comprehensive Agreement on Investment), la cui ratifica è al momento congelata su richiesta del Parlamento Europeo.

«America is back», l’America è tornata, ha scandito mercoledì sera nel suo primo discorso, nella base Royal Air Force Mildenhall, in Inghilterra, dove poco prima era atterrato l’Air Force One. Biden sorride, stringe mani, ma non rinuncia al suo ruolo di leader forte, che detta le regole, che pretende e non abbassa lo sguardo, soprattutto nelle occasioni pubbliche, soprattutto in questo primo tour diplomatico. Lo schema della Casa Bianca è chiaro: da una parte l’Occidente, con gli Stati Uniti a fare da capofila e l’Unione Europea come utile partner (ma ci sono da arginare non pochi protagonismi, come quello del leader ungherese Orban). Dall’altra la Cina, con la sua straripante cavalcata tecnologica alla conquista del resto del mondo (e a proposito di 5G: Huawei ha appena inaugurato a Dongguan il suo più grande “Global Cyber Security Center”).

Contrastare l’avanzata di Pechino

Ed è proprio in quest’ottica che il Senato americano, con un voto bipartisan, ha approvato pochi giorni fa un piano (Innovation and Competition Act) da 250 miliardi di dollari (la Cnbc la definisce “una delle più grandi leggi industriali nella storia degli Stati Uniti”) per contrastare l’avanzata tecnologica di Pechino, con massicci investimenti per finanziare ricerca, progettazione e produzione di semiconduttori (dove evidentemente Washington ha capito di essere in ritardo). Magari lo slogan trumpiano “America first” non va più di moda, ma nei fatti Biden lavora in quello stesso solco: «Rafforzando la nostra infrastruttura di innovazione, possiamo gettare le basi per la prossima generazione di posti di lavoro americani e la leadership americana nella produzione e nella tecnologia». Nel piano ci sono anche un paio di “provocazioni”: il divieto per i funzionari americani di partecipare alle Olimpiadi invernali di Pechino 2022, in risposta al mancato rispetto dei cinesi in tema di diritti umani, e la definizione di “genocidio” delle politiche attuate da Xi Jin Ping nella regione dell'estremo ovest cinese dello Xinjiang, contro la minoranza uigura. Il che, naturalmente ha fatto infuriare Pechino: «Gli Stati Uniti non dovrebbero trattare la Cina come il suo nemico immaginario», ha dichiarato  Wang Wenbin, portavoce del ministero degli Esteri cinese. L’Assemblea nazionale del popolo (Anp) definisce il disegno di legge americano «pieno di mentalità da Guerra Fredda». La Camera di Commercio UE in Cina ora teme la reazione di Pechino: una legge per contrastare le sanzioni è stata approvata ieri, ma i dettagli non sono ancora noti.

Il “sultano” ha bisogno degli Usa

Poi ci sono le due variabili, Turchia e Russia. Che non a caso Biden vuole affrontare di persona e a viso aperto, a sgomberare il campo da qualsiasi possibile equivoco. E rigorosamente in campo neutro (il “sultano” a Bruxelles, Putin in Svizzera: nella grammatica della diplomazia non è un dettaglio). Ma entrambi i dossier sono di estrema delicatezza, per la loro importanza e per la loro complessità. La Turchia è il più irrequieto tra i paesi membri della Nato, capace di compiere il più inaudito dei passi (ha acquistato dal “nemico” russo un sistema di difesa missilistico, l’S-400, perché gli Stati Uniti avevano rifiutato di fornire i “Patriot”) ma anche pedina indispensabile da un punto di vista militare per il “contenimento” di Russia e Cina. Il problema è sempre lo stesso: ci si può fidare di Erdogan? Si possono mettere le briglie al suo incontenibile protagonismo? L’uomo, si sa, non ha il senso della misura. Ed è abilissimo a giocare tra le linee delle rivalità tra le grandi potenze, tenendo i piedi in due, anche tre staffe contemporaneamente. Ma è tutt’altro che sprovveduto: sa perfettamente qual è il momento opportuno per rallentare, per sedersi a un tavolo e dialogare. «Erdogan, che ha governato la Turchia ininterrottamente per quasi due decenni, non è mai stato più vulnerabile. E con l’aggravarsi della crisi economica e politica della Turchia, il suo apprezzamento interno sta precipitando» scrive Foreign Policy, autorevole rivista statunitense, in un’analisi dedicata proprio al prossimo vertice. Anche qui: l’obiettivo di Biden è ricucire quel che recentemente è arrivato a un livello tale di tensione da far temere lo strappo. I rapporti con la Nato, quelli con la Grecia (i frequenti sconfinamenti di Erdogan in acque territoriali greche alla ricerca del gas), quelli con la Francia (tensioni dovute soprattutto al conflitto in Libia) e più in generale con l’Unione Europea. Il “sultano” in questo momento ha bisogno di rinsaldare l’alleanza con gli Stati Uniti, soprattutto per questioni economiche. Quindi è disposto non soltanto ad ascoltare (nonostante le recenti tensioni per il riconoscimento Usa del genocidio armeno), ma anche a offrire al presidente americano un segno tangibile di collaborazione e di lealtà (gira voce, non confermata, di una custodia congiunta Turchia-Usa del sistema missilistico russo S-400). Lunedì prossimo sapremo.

Putin, le minacce, gli armamenti

Infine Putin, il dossier più complesso. Un incontro, chiesto e organizzato dagli americani, che si svolgerà nella splendida Villa La Grange, sul lago di Ginevra, con straordinarie misure di sicurezza (allestite barricate con filo spinato, chiusi e presidiati dalla polizia i due parchi che la circondano). «Non stiamo cercando un conflitto con la Russia», ha dichiarato Biden nel suo primo discorso del tour europeo. «Ma sarò molto chiaro: gli Stati Uniti risponderanno in modo robusto e significativo se il governo russo si impegnerà in attività dannose e ostili». Come mettere una pistola sul tavolo della trattativa. Sulla quale comunque aleggerà una certa tensione: appena lo scorso marzo, dopo la diffusione di un rapporto della Cia secondo cui il Cremlino avrebbe autorizzato operazioni per denigrare l’allora candidato democratico alle presidenziali americane, lo stesso Biden aveva definito il leader russo “un assassino” (in riferimento al caso dell’arresto del dissidente Navalny), con un tono sprezzante e inusuale. «Pagherà un prezzo per aver cercato di interferire nelle elezioni americane. E lo vedrà a breve». Una sfuriata alla quale Mosca aveva reagito con sdegno, con l’espulsione di diplomatici da entrambe le parti.

Tuttavia Putin, al momento, sembra orientato a seguire il suo omologo sulla linea del dialogo: «Dobbiamo trovare il modo di normalizzare le nostre relazioni, che sono attualmente a un livello molto basso», ha detto Putin pochi giorni fa, al Forum Economico Internazionale di San Pietroburgo. Ma anche il presidente russo non si fa troppi scrupoli a parlare con tono chiaro e, spesso, minaccioso: prima ha definito “assurde” le accuse di aver organizzato cyber attacchi contro gli Stati Uniti. Poi ha toccato la questione Bielorussia, un altro dei temi “caldi”: il presunto coinvolgimento russo, ipotizzato dalla Nato, nell’arresto del dissidente Roman Protasevich, con il dirottamento su Minsk di un volo di linea Ryanair. «I servizi segreti russi non hanno nulla a che fare con questa storia», ha sostenuto Putin. «Ma ho sentito che il vertice della Nato ha affermato in una dichiarazione che la Russia potrebbe essere coinvolta. Bene, posso semplicemente dirvi che la Nato è in pericolo se la sua leadership dice cose simili».

Anche il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha parlato dei rapporti con la Russia: «Un modello di azioni aggressive da parte della Russia ha portato l’Alleanza a rafforzare la sua presenza sul fronte orientale, nel Mar Nero e nel Mar Baltico», ha dichiarato Stoltenberg. Suggerendo un approccio “a doppio binario”: «Dobbiamo essere forti, fermi, ma allo stesso tempo dobbiamo impegnarci per il dialogo con Mosca perché la Russia è un nostro vicino». In realtà gli analisti non si aspettano molto dal vertice (nel quale comunque si parlerà di controllo degli armamenti e di attacchi informatici): più che altro una presa di contatto per definire le basi di un rapporto ancora tutto da costruire. Fermo restando che una “non ostilità” sarebbe il punto d’equilibrio più gradito. Come ha spiegato Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca: l’obiettivo del vertice è «ripristinare la prevedibilità e la stabilità nelle relazioni Usa-Russia». Insomma, Joe Biden vuole sfruttare l’occasione per rimettere ordine nel disordine internazionale lasciato dal suo predecessore: «Le democrazie possono unirsi per fornire risultati reali in un mondo in rapida evoluzione? Le alleanze e le istituzioni democratiche che hanno plasmato gran parte del secolo scorso dimostreranno la loro capacità contro le minacce e gli avversari moderni? Credo che la risposta sia sì. E questa settimana in Europa abbiamo la possibilità di dimostrarlo».

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