SOCIETÀ

Black lives matter e quel pugno chiuso nello sport

Ed eccoci qui, in bilico tra il "non è cambiato niente" e "sta cambiando tutto". La morte di George Floyd sembra aver scatenato una marea inarrestabile di proteste e, come notato da Spike Lee, pare che qualcosa si stia muovendo, perché insieme ai neri, anche molti giovani bianchi sono scesi in piazza: i neri contano, e non sono più solo loro a dirlo. A voler essere ottimisti, c'è spazio per una rivoluzione. I più cauti, invece, fanno presente che le manifestazioni ci sono sempre state, e che dei 4 poliziotti presenti mentre Floyd soffocava, solo uno è stato messo sotto processo, cioè l'esecutore materiale.

Anche il mondo dello sport, in questi giorni, ha cercato di far sentire la sua voce per dire che le cose devono cambiare, e che l'America deve cominciare a prendersi le sue responsabilità perché "il pesce puzza dalla testa": se hai un presidente che ogni giorno o quasi se ne esce con frasi contro le minoranze, non ci si può stupire più di tanto se poi qualcuno lo prende in parola e passa ai fatti. In nome del black lives matter il giocatore dell'Inter Romelu Menama Lukaku Bolingoli ha esultato per il gol segnato contro la Samdoria inginocchiandosi e alzando il pugno chiuso.

Anche Nicolas Nkoulou del Torino aveva esultato allo stesso modo, e sui social, insieme ai messaggi di solidarietà, non sono mancate le risposte polemiche e anche i veri e propri insulti, a partire da alcuni tifosi dell'Inter che non hanno mai nascosto il loro orientamento politico. Come a dire: "Ehi, fai il tuo lavoro e segna, ma che non ti venga in mente di avere degli ideali opposti ai nostri". A livello di società, invece, l'Inter si è immediatamente schierata a favore del suo bomber, tanto più che da anni si sta impegnando a vario titolo contro il razzismo, e ha anzi condiviso la foto dell'esultanza.

Purtroppo non è la prima volta che i giocatori di colore vengono fischiati o insultati in Italia, com'era successo al giocatore del Napoli Kalidou Koulibaly nel 2018, tra l'altro proprio a Milano. E che non si pensi che il successo agonistico metta al riparo dal razzismo: prendiamo per esempio Jesse Owens, famoso per i quattro ori vinti alle Olimpiadi del 1936 "alla faccia di Hitler" che, una volta tornato in patria da vincitore, rimaneva sempre obbligato a entrare negli hotel dalla porta di servizio, per non parlare del fatto che, dopo le Olimpiadi, non gli arrivò mai il telegramma di congratulazioni del presidente Roosvelt (regolarmente inviato, invece, al bianchissimo connazionale Glenn Morris).

Il gesto di Lukaku rimanda ad altre proteste di sportivi che si sono succedute nel corso dell'ultimo secolo. La più famosa è probabilmente quella di Tommy Smith e John Carlos ai Giochi Olimpici di Città del Messico del 1968: vincitori, rispettivamente, dell'oro e del bronzo nei 200 metri piani, i due si inginocchiarono sul podio mentre veniva suonato l'inno americano, e alzarono il pugno al cielo indossando un guanto nero. A causa di questo gesto  i due vennero sospesi dalla squadra americana, su pressione di quello stesso Brundage che si era opposto al boicottaggio, da parte degli Stati Uniti, delle Olimpiadi del 36, svoltesi nella Germania nazista. Smith e Carlos si  giocarono la carriera, ma rimasero nella storia.

E poi c'è stato Colin Kaepernick, ex quarterback della squadra di football dei San Francisco 49ers, che aveva scelto di rimanere seduto durante l’esecuzione dell’inno americano dicendo a NFL Media: “Non starò in piedi per dimostrare il mio orgoglio per la bandiera di un paese che opprime i neri e le minoranze etniche. Per me è più importante del football, e sarebbe egoista guardare dall’altra parte. Ci sono cadaveri per le strade, e persone che la fanno franca”. Di fronte alle polemiche seguite, la sua squadra lo aveva difeso, anche se aveva nel contempo ribadito l'importanza dell'inno nazionale. In compenso Trump, all’epoca candidato alla presidenza, lo aveva invitato a cercarsi un paese all’altezza dei suoi ideali. In seguito Kaepernick aveva cominciato a inginocchiarsi, perché anche se non rispettava la bandiera, rispettava invece i soldati che combattevano in nome di essa. Anche a causa di questi episodi, alla scadenza del contratto con i San Francisco 49ers il giocatore non riuscì a trovare un'altra squadra che lo ingaggiasse.
All'epoca, anche una persona che forse avrebbe dovuto sostenere la protesta, il commentatore sportivo Rodney Harrison, aveva spiegato candidamente che Kaepernick non era abbastanza nero per farsi portavoce di una protesta del genere (poi si era scusato, ma aveva comunque portato alla luce un pensiero comune tra molti neri che si limitavano a scriverlo sui social: per lamentarsi del razzismo in America, a quanto pare, bisogna essere neri scuri. Razzismo nel razzismo, insomma).

E il problema, probabilmente, sta proprio qui: finché saranno solo i neri a difendere i neri, finché solo dai neri verrà ribadito che la loro vita conta, è probabile che politici razzisti come Trump e Bolsonero non perderanno l'occasione per parlare alla pancia degli elettori, cavalcando l'onda razzista che ha sempre fruttato loro molti consensi. Forse la chiave del successo delle proteste del black lives matter sta proprio qui: ora ci sono anche i bianchi. Persone che si sono stufate di essere privilegiate da un sistema che, ogni giorno, li favorisce solo in virtù del colore della loro pelle, persone che sanno che al mondo esistono infiniti pigmenti e nessuna razza, persone che, in ultima analisi, potrebbero davvero far pendere l'ago della bilancia politica, persone che fanno paura al sistema, come Jean Seberg, e che sono pronte a far valere il loro privilegio in nome di un ideale superiore.
 

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