L’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) sottolinea – se ancora ce ne fosse bisogno – che senza interventi di riduzione delle emissioni di gas climalteranti andremo incontro a pesanti ripercussioni. È fondamentale, dunque, programmare politiche per contrastare i cambiamenti climatici e, nel contempo, monitorare lo stato di salute del nostro pianeta.
A causa del riscaldamento globale in atto i ghiacciai, la neve e il permafrost stanno diminuendo e continueranno a farlo. Questo aumenterà i rischi per le persone, con il verificarsi di frane, valanghe, cascate e inondazioni. Si stima che i piccoli ghiacciai che sono in Europa, in Africa orientale, nelle Ande tropicali e in Indonesia siano destinati a perdere oltre l'80% della loro attuale massa entro il 2100 in scenari ad alte emissioni. E il ritiro della criosfera di alta montagna influenzerà probabilmente in modo negativo le attività ricreative, il turismo e i beni culturali. Senza contare che, se i ghiacciai di alta montagna si ritirano, possono alterare anche la disponibilità e la qualità dell’acqua a valle, con conseguenze in settori come l’agricoltura e l’energia idroelettrica. Il livello del mare, poi, continua ad aumentare, di 15 centimetri nel XX secolo.
Jacopo Boaga racconta la missione in Svizzera. Riprese e montaggio di Anna Bellettato. Contributi video di Jacopo Boaga e Claudia Hoffmann
“In ottica di cambiamenti climatici – sottolinea Jacopo Boaga, geologo del dipartimento di Geoscienze dell’università di Padova –, le zone periglaciali sono molto studiate e importanti. Si tratta delle zone polari alle alte latitudini e altitudini. Io e alcuni colleghi dello Swiss Federal Institute for Forest Snow and Landscape Research WSL, ad esempio, stiamo esaminando il permafrost (una porzione di suolo permanentemente ghiacciato) nelle zone della Svizzera sud occidentale con una nuova metodologia geofisica che si serve di strumenti elettromagnetici”. Proprio a questo scopo, Boaga ha trascorso qui il periodo estivo.
“L’obiettivo – spiega – è di monitorare lo stato di salute di questi suoli permanentemente ghiacciati che hanno delle forti influenze sulla stabilità dei versanti e che ci consentono di capire lo sviluppo di questi ambienti, in un’ottica di cambiamento climatico: temperature sempre più elevate ed estati più lunghe dal punto di vista delle temperature comportano uno scioglimento sempre maggiore di queste zone periglaciali”. Bastano pochi dati per inquadrare la situazione generale: secondo i dati dell’Ipcc anche se il riscaldamento globale si mantiene al di sotto dei 2° C, circa il 25% del permafrost vicino alla superficie, a 3-4 metri di profondità, si scongelerà entro il 2100. E se le emissioni di gas serra continuano ad aumentare sensibilmente, circa il 70% potrebbe andare perduto. A ciò si aggiunga che il permafrost artico e boreale contiene grandi quantità di carbonio organico, quasi il doppio di quello che si trova nell’atmosfera, e se si scongela potrebbe aumentare in modo significativo la concentrazione di gas serra. Si evince, dunque, che questi tipi di suolo sono ottimi indicatori di quanto velocemente stia cambiando il clima attorno a noi.
“Solitamente – continua Boaga – le misure nel permafrost vengono condotte con pozzi di temperatura all’interno del terreno. Ora invece, attraverso metodi elettromagnetici, abbiamo tentato di collezionare dati in maniera molto più veloce e logisticamente più economica, cercando di estendere le informazioni e di comprendere quale fosse lo strato permanentemente ghiacciato e quello che ogni estate si scongela, il cosiddetto strato attivo”.
Si tratta tuttavia di ambienti molto complessi da raggiungere e nei quali lavorare. Per questo il gruppo di ricerca sta valutando di collegare gli strumenti a dei droni, così da estendere le misurazioni in maniera massiva e senza la necessità che gli operatori debbano muoversi sulle superfici impervie di questi ambienti di montagna. “Questo – conclude Boaga – ci permetterebbe un monitoraggio molto più fitto dell’evoluzione del permafrost durante l’intera stagione estiva e i diversi anni di monitoraggio e ci consentirebbe quindi di avere un’informazione più completa dello stato di salute di questi ambienti periglaciali che non interessano solo le zone polari o delle alte latitudini, ma anche quelle alpine di alta montagna”.