SCIENZA E RICERCA

Che fine ha fatto la Nature restoration law europea?

A fine febbraio, a Strasburgo, era stata accolta da un lungo applauso: la Nature restoration law, il pilastro più ambizioso e contestato del Green Deal, dopo due anni di tira e molla aveva finalmente ottenuto il via libera del Parlamento Europeo.

Nonostante il percorso accidentato dai numerosi emendamenti che hanno limato la sua forza originaria, la Nature Restoration law sembrava essere sopravvissuta anche alle proteste dei trattori. Soprattutto, sembrava salvo il suo obiettivo principe: ripristinare almeno il 20% delle aree terrestri e marine degradate entro il 2030, per arrivare al 60% entro il 2040 e a più del 90% entro il 2050. “Sembrava”, appunto, perché la legge progettata per invertire decenni di danni alla fauna selvatica e agli ecosistemi, è diventata una bolla di sapone pronta a scoppiare. Lasciando dietro di sé solo il ricordo, come in un sogno.

Il 22 marzo scorso, infatti, il Consiglio “Ambiente” - ovvero l’organo che riunisce i ministri dell’ambiente dei paesi membri - doveva approvare il testo in via definitiva. Un’approvazione considerata ormai una pura formalità, e invece si è bloccato tutto. Di fatto, per procedere serviva una maggioranza di almeno 15 nazioni, che rappresentassero il 65% della popolazione europea. Eppure sei paesi (Olanda, Svezia, Polonia, Finlandia, Ungheria e Italia) si sono “momentaneamente” tirati indietro, mentre Austria e Belgio, si sono astenuti. Risultato: le nazioni rimaste favorevoli non rappresentavano più del 64% della popolazione europea. E quindi, per non portare a casa una sonora bocciatura, il voto sulla Nature Restoration law è stato rimandato a data da destinarsi.

È proprio questo il nodo cruciale: “data da destinarsi”. Le proteste dei trattori e del settore agricolo hanno colpito nel segno, e mentre il cambiamento climatico inasprisce il disagio vissuto da chi lavora nei campi ma si oppone strenuamente alle misure pro-natura, si avvicinano le elezioni europee e le destre - notoriamente poco lungimiranti in fatto di ambiente e clima - sembrano avvantaggiate. Le premesse quindi non sono le migliori per la Nature restoration law che vede tra gli altri obiettivi anche: la tutela e l’incremento degli spazi verdi urbani; il recupero della naturalità di almeno 25.000 km di fiumi e corsi d’acqua; l’attuazione di misure idonee per invertire il declino delle popolazioni di insetti impollinatori entro il 2030; la piantumazione di almeno tre miliardi di alberi aggiuntivi entro il 2030 in Europa; e la riumidificazione di torbiere drenate per uso agricolo, perché hanno un ruolo chiave nello stoccaggio di CO2.

Foreste, torbiere e mari: sono i tre ecosistemi chiave da ripristinare. E proprio per capire l’importanza della Nature Restoration law e quanto lavoro ci aspetta in Italia per provare a raggiungere gli obiettivi di ripristino degli ecosistemi terrestri e marini, ne abbiamo parlato con tre esperti del settore.

Foreste

“La Restoration law è rivoluzionaria quanto la Direttiva Habitat, che nel 1992 inaugurò un nuovo modo di proteggere gli ecosistemi in Europa, lanciando la Rete Natura 2000. Ora si aggiunge il tassello del ripristino: il nostro benessere, quello di cittadini e cittadine, dipende proprio da ecosistemi sani e funzionanti” spiega a Il Bo Live Giorgio Vacchiano, ricercatore in scienze forestali all’Università degli studi di Milano.

Eppure dalle Alpi alla Sicilia, le foreste italiane vivono un momento difficile. “La Strategia nazionale per la biodiversità 2011-2020 ci dice che solo il 14% degli habitat forestali continentali e l’11% di quelli mediterranei mantengono uno status di conservazione favorevole. E se guardiamo la Lista Rossa degli Ecosistemi d’Italia quattro habitat forestali sono ‘in pericolo critico’ (leccete planiziali e collinari; querceti, boschi di latifoglie miste e boschi ripari della Pianura Padana), mentre altri 22 ecosistemi forestali sono ‘in pericolo’ o ‘vulnerabili’. Per la Nature Restoration Law dobbiamo raggiungere obiettivi su tre livelli: entro il 2030 dobbiamo ripristinare una soglia minima di superficie (30% degli ecosistemi totali, di cui 20% degradati e 10% di territorio soggetto a protezione rigorosa); ripristinare i processi ecologici che avvengono in quella superficie, e la biodiversità che garantisce lo svolgimento di questi processi” continua Giorgio Vacchiano.

“Oggi i siti della rete Natura 2000 interessano il 22.2% della superficie forestale italiana, ma solo il 5% delle foreste è soggetto a protezione rigorosa. Questo vuol dire che dobbiamo raddoppiare le riserve esistenti, individuando al più presto nuove aree da sottoporre a protezione rigorosa. Aree da scegliere in modo strategico, che non siano solo foreste inaccessibili o non produttive, ma che siano habitat già in fase di rewilding attivo, foreste vetuste o con elementi vetusti, e in territori non soggetti a disturbi ricorrenti o causati dalle attività umane. E poi dovremo dimostrare anche un aumento nel tempo della quantità di legno morto - habitat fondamentale per moltissime specie; della percentuale di foreste disetanee, considerate più varie, ospitali e resilienti; dei corridoi ecologici tra una foresta e l’altra, del carbonio immagazzinato nel bosco, e delle specie di uccelli specialiste degli ambienti forestali” prosegue lo scienziato forestale Giorgio Vacchiano.

Una sfida impegnativa, ma non impossibile: “Il recente progetto Life GoProFor ha raccolto e reso disponibili molte buone pratiche di gestione forestale mirata al miglioramento della biodiversità. La Nature restoration Law va sbloccata: contrariamente a quanto sostenuto anche dal Governo italiano, tra i Paesi promotori del blocco della legge, la legge non si oppone allo sviluppo economico o ai redditi dei contadini: secondo lo studio di impatto che accompagna la legge, ogni euro investito in ripristino ne genera 7 in termini di benefici per la comunità. A conti fatti c’è un ritorno economico impagabile” conclude Giorgio Vacchiano.

Mari

“Anche per gli ambienti marini, l’approvazione della Nature Restoration Law è un’opportunità imperdibile, che può favorire un’azione combinata sia di ripristino attivo degli habitat chiave - come barriere coralline e praterie di Posidonia oceanica - sia di ripristino passivo, con misure volte a ridurre le varie forme di inquinamento marino e a minimizzare gli impatti delle attività di pesca distruttive” spiega a Il Bo Live Mariasole Bianco, biologa marina e fondatrice di Worldrise.

“Il ripristino degli ambienti marini citati, peraltro, favorisce le aree di riproduzione e di crescita degli stock ittici, generando benefici a cascata. Un mare in salute e pescoso vuol dire più servizi ecosistemici garantiti per la nostra vita e per il benessere della società, in termini di risorse, ma anche a livello culturale. Inoltre, il ripristino degli ambienti marini degradati ci aiuterà nel processo di adattamento e mitigazione dei danni provocati dal cambiamento climatico: proteggere ei mari e le coste significa limitare i danni provocati dagli eventi meteorologici estremi, dall’innalzamento del livello del mare e dall’erosione costiera” sottolinea la biologa marina Mariasole Bianco, che aggiunge: “non dobbiamo, poi, dimenticarci di un altro grande bene comune globale, nonché un componente vitale della nostra biosfera, purtroppo fortemente impattato dalle attività umane: l’alto mare. Per fortuna, l’anno scorso, è stato siglato il Trattato per la protezione dell’Alto Mare, che ha l’importante obiettivo di tutelare il 30% degli oceani entro il 2030, attraverso la creazione di una rete di aree marine protette”.

Per quanto riguarda la strada da percorrere per raggiungere gli obiettivi auspicati dalla Nature Restoration Law, non appena diventasse operativa, è una strada lunga: “ad oggi, soltanto il 10% dei nostri mari è protetto e, di questa percentuale, solo lo 0,06% presenta una comprovata efficacia di gestione. Inoltre delle oltre 17.000 specie animali e vegetali che abitano il Mar Mediterraneo, il 40% si trova oggi in cattive condizioni di sopravvivenza e questa legge - che è perfettamente in linea con il lavoro che con Worldrise stiamo portando avanti per la conservazione efficace di almeno il 30% dei mari italiani entro il 2030 - ci riporterebbe sulla giusta rotta per assicurare un futuro migliore per il nostro mare e per tutti noi che dipendiamo dalla sua salute” continua Mariasole Bianco.

“Se allarghiamo lo sguardo all’Europa vediamo che l’80% degli ecosistemi europei è degradato e, in particolare, il 93% dell’area marina europea è soggetto a diverse pressioni causate dalle attività umane, come pesca, turismo, traffico marittimo e sviluppo costiero. Perciò la Nature Restoration Law rappresenterebbe un punto di svolta, tanto atteso quanto ambizioso, per implementare azioni coese capaci di rispondere alla crisi climatica, rallentare la perdita di biodiversità e rispettare gli impegni internazionali assunti in materia di clima e ambiente” conclude la biologa marina “C’è ancora molto lavoro da fare per tutelare il Pianeta Blu, ma se lavoriamo insieme possiamo farcela!”

Torbiere – zone umide

“In Italia, il 47,6% delle zone umide è in cattivo stato di conservazione, un altro 31,7% presenta uno stato di conservazione inadeguato, e solo il 5% si trova in uno stato di conservazione favorevole. Questo è quello che emerge dai dati dell’Ispra - l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, nonostante il nostro paese ospiti 57 siti Ramsar, riconosciuti come zone umide di importanza internazionale, che coprono un totale di quasi 75.000 ettari protetti” ricorda a Il Bo Live Alessio Satta, ricercatore della Mediterranean sea and coast foundation e direttore dell’ufficio mediterraneo del WWF international.

“In questa categoria rientrano anche le torbiere: uno degli ecosistemi più minacciati a livello globale, perché storicamente sono state drenate e convertite per usi agricoli, per la silvicoltura e per lo sviluppo urbano. Le torbiere, però, hanno un’eccezionale capacità di stoccare carbonio, qualità che le rende cruciali nella lotta contro il cambiamento climatico. A differenza di altri tipi di zone umide, infatti, le torbiere si formano in condizioni di elevata acidità e bassa disponibilità di ossigeno (condizioni che rallentano notevolmente il processo di decomposizione del materiale organico) e quindi accumulano grandi quantità di carbonio organico nel loro substrato di torba, custodendolo per migliaia di anni!” spiega Alessio Satta. “Parliamo di 2.000 tonnellate di carbonio stoccato per ettaro, una quantità dieci volte maggiore rispetto ad altre zone umide. Infatti, nonostante coprano solo una piccola frazione della superficie terrestre globale, le torbiere contengono quasi un terzo del carbonio del suolo mondiale, superando il carbonio stoccato nelle foreste viventi”.

“Oltre alla loro funzione di serbatoi di carbonio, le torbiere svolgono altri ruoli ecologici vitali. Funzionano come importanti sistemi di filtraggio delle acque, purificando l’acqua e riducendo la contaminazione prima che raggiunga altri corpi idrici. Inoltre, forniscono habitat unici per una varietà di specie vegetali e animali, molte delle quali sono specializzate e non possono sopravvivere in altri ambienti. Le torbiere regolano anche il regime idrico locale, mantenendo l’umidità in periodi di siccità e riducendo le piene durante i periodi di pioggia intensa” prosegue Alessio Satta.

“In Europa ci sono 350.000 km quadrati di torbiere, ma il 50% di queste è degradato” ricorda Alessio Satta. E in effetti l’Europa è il secondo emettitore di gas serra al mondo proprio per via delle torbiere drenate, che rappresentano il 7% di tutte le emissioni europee.

Proprio le torbiere sono al centro dell’articolo 9 della Nature Restoration Law: nell’articolo 9 - uno dei più dibattuti ed emendati in questi due anni. “La Nature Restoration Law prevede il recupero del 30% delle torbiere entro il 2030 attraverso la riumidificazione: un processo che non solo è essenziale per mitigare il cambiamento climatico, ma è anche benefico per l’agricoltura! Le torbiere funzionano come spugne, in grado di assorbire precipitazioni, proteggere dal rischio di siccità, contenere alluvioni e filtrare l’acqua. Inoltre, migliorano la qualità dei suoli, rendendoli più produttivi. Se invece continuiamo a drenare le torbiere, compromettiamo i servizi ecosistemici che esse forniscono ai cittadini e agli agricoltori, e perdiamo uno dei nostri strumenti principali nella lotta contro il cambiamento climatico”.

Come ribadisce una lettera aperta firmata da un centinaio di scienziati da tutto il mondo “la legge europea sul ripristino della natura funzionerà solo se sarà attuata in collaborazione con gli agricoltori”, agricoltori che sembrano andare contro il Green Deal, mentre - come scrivono più avanti i firmatari dell’appello - “salvare la natura non significa solo combattere la perdita di biodiversità e il cambiamento climatico. Ma significa anche salvare la produttività agricola”. Non resta che sperare - e ribadire - che un accordo di coesistenza tra Nature Restoration Law, agricoltori e governi venga trovato quanto prima.

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