SOCIETÀ

Cina-Hong Kong: la democrazia a processo

Al governo centrale di Pechino è bastato emanare una sola legge, quella sulla “sicurezza nazionale”, per reprimere, una volta per tutte, il dissenso a Hong Kong. Per togliere voce e libertà a tutti quegli attivisti che per anni si sono battuti a favore della democrazia, commettendo un unico reato: quello di non chinare la testa di fronte alla presa di potere del partito Comunista sull’ex protettorato britannico, restituito alla Cina nel 1997. Con buona pace delle promesse di facciata, dello slogan “un Paese, due sistemi” che avrebbe dovuto garantire autonomia e libertà impensabili nel resto della Repubblica Popolare Cinese. Era il 2020, a maggio, quando Xi Jinping annunciò che i poteri concessi alle forze di polizia cinesi per contrastare terrorismo, sovversione e ingerenze straniere sarebbero stati estesi anche nella regione autonoma di Hong Kong. In un solo mese circa trecento attivisti finirono in carcere. Ora per 47 di loro, i più noti, i più “pericolosi”, è arrivato il giorno del giudizio: tra loro Benny Tai (ex professore associato di Diritto all’Università di Hong Kong, poi licenziato proprio per la vicinanza con i movimenti di protesta), gli ex legislatori Claudia Mo, Au Nok-hin e Leung Kwok-hung e gli attivisti democratici Joshua Wong e Lester Shum. Il processo si è aperto il 6 febbraio scorso: sono tutti accusati di “cospirazione per commettere sovversione”, per aver organizzato elezioni primarie non ufficiali. Secondo i giudici cinesi il loro obiettivo ultimo era quello di rovesciare il governo di Hong Kong. Gli imputati replicano sostenendo che stavano praticando una “normale opposizione politica”. Tre di loro, forse quattro, sono stati “convinti” a testimoniare a favore dell’accusa, contro gli ex compagni di lotta. Sedici su 47 si sono dichiarati “non colpevoli”. Tra questi ultimi c’è anche Gwyneth Ho, 32 anni, ex giornalista, che si era candidata alle primarie. Non sarà un processo-lampo: si prevede che possa durare tra i 90 e i 120 giorni, anche se la sentenza per molti è già scritta: se saranno ritenuti colpevoli, la pena prevista è l’ergastolo.

 

«Quel processo è una farsa»

L’ong Index on Censorship, che si batte per denunciare le più grandi minacce alla libertà di parola in tutto il mondo, non usa mezzi termini per descrivere cosa sta accadendo in questi giorni a Hong Kong: «Il processo è una farsa. Non c’è giuria, il che va contro una lunga tradizione nel sistema legale di Hong Kong, che è stato istituito in linea con la common law britannica. I giudici sono scelti da Pechino. Ci sono rapporti secondo cui alcuni che stanno occupando i 39 posti riservati al pubblico nell’aula principale non sanno nemmeno chi è sotto processo (i dettagli sono spiegati in questo articolo pubblicato dall’Hong Kong Free Press). I 47 stanno entrando in tribunale con la loro presunta colpevolezza. Ventinove si sono già dichiarati colpevoli. Senza fiducia nel sistema legale, la loro unica speranza è una sentenza più mite. L’ex consigliere distrettuale Ng Kin-wai ha detto ai tre giudici: “Non sono riuscito a sovvertire il potere statale. Mi dichiaro colpevole”. Che si sia inchinato è comprensibile. Che una minoranza non lo farà è un segno di quanto siano straordinarie e resilienti queste persone». Lo scriveva anche la Casa Bianca in un memorandum datato agosto 2021, quindi dopo l’ondata di arresti: «Imponendo unilateralmente a Hong Kong la legge sulla salvaguardia della sicurezza nazionale, la Repubblica Popolare Cinese ha minato il godimento dei diritti e delle libertà a Hong Kong, compresi quelli protetti dalla Legge fondamentale e dalla Dichiarazione congiunta sino-britannica. Dal giugno 2020, la polizia ha continuato una campagna di arresti motivati politicamente, prendendo in custodia almeno 100 politici, attivisti e manifestanti dell’opposizione con accuse di secessione, sovversione, attività terroristiche e collusione con un paese straniero o elementi esterni. Oltre 10.000 persone sono state arrestate per altre accuse in relazione alle proteste antigovernative. Nell’ultimo anno, la RPC ha continuato il suo assalto all’autonomia di Hong Kong, minando i suoi restanti processi e istituzioni democratiche, imponendo limiti alla libertà accademica e reprimendo la libertà di stampa».

Intervenire dall’esterno su questioni inerenti la Cina non è mai semplice, soprattutto in una fase come quella attuale, dove le tensioni internazionali sono tutt’altro che sopite. Ci ha provato il Regno Unito, almeno a parole, in quanto diretto interessato: «La Gran Bretagna resisterà all’aggressione cinese e difenderà le libertà di Hong Kong», ha dichiarato il mese scorso il primo ministro Rishi Sunak sfidando l’irritazione di Pechino, che già aveva mostrato sensi d’insofferenza per l’incontro tra Anne-Marie Trevelyan, ministra del governo inglese per l’Indo-Pacifico, e lo staff di legali di Jimmy Lai, magnate dell’editoria e cittadino britannico, fondatore del quotidiano Apple Daily di Hong Kong, chiuso nel 2021. Il processo a carico di Lai dovrebbe andare in scena il prossimo settembre. Le autorità di Hong Kong hanno già chiesto a Pechino di intervenire per impedire a Lai di essere rappresentato da un avvocato inglese: «Non tollereremo mai, e deploreremo fortemente, qualsiasi forma di interferenza da parte di qualsiasi potenza straniera o individuo con i procedimenti giudiziari e gli affari interni del territorio». Nell’ultimo rapporto semestrale sugli sviluppi politici di Hong Kong, pubblicato il mese scorso, il governo britannico ha formalmente accusato le autorità cinesi e di Hong Kong di «minare i diritti e le libertà promessi agli abitanti di Hong Kong sotto la Dichiarazione di adesione sino-britannica». Sostenendo poi, per maggiore chiarezza: «L’autonomia della città è in declino. Non c’è alcun dubbio che Pechino non stia rispettando la dichiarazione congiunta». Il riferimento è al trattato, firmato il 19 dicembre 1984, il base al quale venivano definite le modalità di “riconsegna” di Hong Kong alla Cina, compreso il principio già citato “One Country, Two Systems”, che avrebbe dovuto garantire alla città, per 50 anni, un alto grado di autonomia. Nel rapporto il governo inglese sostiene inoltre che «l’effetto agghiacciante della legge sulla sicurezza nazionale imposta da Pechino si infiltra in tutti gli aspetti della società».

Appello alla comunità internazionale: «Non abbassate la voce»

La Fondazione Committee for Freedom in Hong Kong, istituita proprio per sostenere la popolazione di Hong Kong mentre la Cina aumenta la stretta repressiva delle libertà collettive e individuali, ha pubblicato pochi giorni fa una relazione nella quale si invita la comunità internazionale, e in particolar modo gli Stati Uniti, a non arrendersi e a non abbassare la voce. «A causa del rapido declino delle protezioni della libertà e dei diritti umani di Hong Kong, molti hanno ipotizzato che ci sia poco da fare per rispondere. Hong Kong è stata persino etichettata come una causa persa. Tuttavia è inesatto dire che non ci sono strumenti a disposizione degli Stati Uniti e della comunità internazionale: anzitutto è necessario ritenere responsabili il Partito Comunista Cinese e i funzionari regionali. È indispensabile continuare a sostenere le persone che – per scelta o per forza – rimangono a Hong Kong. Non dovrebbe passare giorno in cui la comunità internazionale non esprima la sua solidarietà alle persone ingiustamente imprigionate a Hong Kong». Anche l’Unione Europea mantiene, seppur con cautela, l’attenzione alta. Laurence Vandewalle dell’Ufficio UE a Hong Kong e Macao, ha dichiarato di seguire il processo dei 47 democratici "con grande attenzione": «Apprezziamo che il sistema giudiziario sia aperto e che sia possibile osservare cosa accade».

Dei 47 attivisti accusati, soltanto 13 hanno ottenuto lo scorso anno la libertà su cauzione, ma con una serie di vincoli da rispettare: divieto di rilasciare interviste ai media, divieto di contattare politici stranieri o funzionari governativi. Da questa mattina, dopo i preliminari della scorsa settimana, comincerà l’audizione dei testimoni dell’accusa, che proseguirà per almeno quattro settimane. «L'intero caso si basa su azioni ipotetiche che gli imputati potrebbero fare in futuro», ha sostenuto, intervistato dal Guardian, William Nee, ricercatore presso la Chinese Human Rights Defenders. «È una chiara violazione del diritto di candidarsi a cariche pubbliche secondo il diritto internazionale». Mentre il New York Times ha interpellato Thomas Kellogg, direttore esecutivo del Center for Asian Law: «Questo processo è fondamentalmente destinato a infliggere un colpo da ko per l’opposizione politica pacifica di Hong Kong». Cambiano le parole degli analisti, non la sostanza: il processo dei 47 a Hong Kong segnerà la scomparsa della democrazia.

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