SOCIETÀ

Clima e pandemia minacciano anche l’economia

Lo stato di salute del nostro Pianeta è sempre meno un problema “ambientale”, che interessa esclusivamente ecologisti e amanti della natura, e sempre più un dato che incide direttamente sulla nostra vita concreta. Anche dal punto di vista economico: il cambiamento climatico inizia infatti a presentare il conto, che è ancora più salato delle attese – complice la pandemia. È l’allarme lanciato in un articolo pubblicato sul New York Times da Somini Sengupta, corrispondente internazionale esperta in Climate Change.

Tre sono gli esempi riportati in tre continenti: i piccoli Stati del Belize e delle Figi e il Mozambico, grande più del doppio dell’Italia e con quasi 28 milioni di abitanti. Casi molto diversi tra loro ma accomunati dal fatto di essere stati recentemente colpiti da tifoni e uragani, che oltre a uccidere centinaia di persone hanno fortemente danneggiato le infrastrutture e l’economia. E non ci sono solo gli eventi estremi: anche erosione e innalzamento del mare minacciano costantemente popolazione e asset produttivi vitali. Una situazione che negli ultimi anni ha spinto i governi ad indebitarsi sempre più, non solo con istituzioni internazionali come Fmi e Banca mondiale ma soprattutto con gli Stati ricchi. Infine a complicare le cose è arrivato il Coronavirus, che abbattendo i flussi turistici ha privato molte comunità di una fonte essenziale di entrate dall’estero.

Il risultato è una bolla di debito che a livello mondiale è stimata in 600 miliardi di dollari, che difficilmente potranno essere restituiti e che costituiscono una minaccia per la stabilità dell’intera economia globale. Il mutamento delle condizioni ambientali rischia infatti di abbassare la produttività del suolo e l’attrattività turistica di molte zone climatiche tropicali e temperate: una situazione da far perdere il sonno anche ai responsabili delle economie dei Paesi ricchi, particolarmente esposte alle conseguenze di una catena di default.

Intanto nei Paesi più colpiti dalle conseguenze del riscaldamento globale, molti dei quali con una scarsa produzione industriale e un Pil pro capite medio-basso, cresce il malcontento per il fatto di essere le prime vittime di una situazione alla quale non si è contribuito se non in minima parte. Una sensazione di frustrazione e di rabbia che cresce vedendo proprio i Paesi con le più alte emissioni di Co2 – Cina in testa, maggior creditore mondiale – trarre vantaggio dagli assetti attuali. Per questo a livello internazionale si fanno sempre più strada voci che chiedono una revisione totale o parziale del debito. Tra le proposte c’è una riduzione delle passività in base a una serie di parametri, come il passaggio a fonti di energia pulite o la salvaguardia delle proprie risorse naturali (come d esempio foreste e paludi).

Una sorta di scambio tra crediti e tutela dell’ambiente (climate-health-debt swap) che però vede davanti a sé un cammino pieno di ostacoli. Con tutta probabilità le discussioni si intensificheranno con l’avvicinarsi della COP26, la conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico che si terrà a Glasgow dal 9 al 20 novembre 2020. Per il momento le nazioni del G20, in larga parte indebolite anch’esse dalla pandemia, appaiono ancora lontane dal prendere impegni concreti per aiutare i Paesi più poveri nella transizione green, a fronte della promessa data in passato di mobilitare circa 100 miliardi di dollari all’anno a partire dal 2020. Cifra che può apparire enorme, ma che è ben lontana dagli 8.100 miliardi di dollari dovuti dai Paesi a reddito pro capite medio-basso agli investitori stranieri nel 2019, prima ancora che la pandemia dispiegasse tutto il suo potenziale destabilizzante.

La spirale tra bassa produttività, indebitamento e pandemia del resto non riguarda solo i Paesi poveri ma anche alcune potenze industriali in crisi. Se il Belize è in difficoltà con un debito che equivale all’incirca all’85% del Pil, cosa può dire ad esempio l’Italia che ormai viaggia intorno al 160%, avendo superato i 2.600 miliardi di euro? Difficile certamente fare paragoni tra situazioni tanto diverse, per apparato produttivo e peso nell’economia mondiale: anche in Italia però i costi del degrado ambientale e del riscaldamento climatico cominciano a essere decisamente salati, rischiando di far saltare un contesto già in grave sofferenza.

I Paesi poveri sono sempre più indebitati per fronteggiare la crisi ambientale, ma anche quelli ricchi non possono stare tranquilli

Un esempio viene dal fenomeno sempre più frequente e distruttivo delle acque alte a Venezia, che mettono in pericolo non solo capolavori d’arte e di storia ma anche la seconda meta turistica italiana, con oltre 12 milioni di visitatori annuali prima della pandemia. Dopo gli allagamenti eccezionali del 2019 l’anno scorso è entrato in funzione in via sperimentale il Mose, che resta però solo un assaggio degli enormi costi necessari per gestire un ambiente che cambia. E il problema non vale solo per la città lagunare, dato che oltre la metà del turismo in Italia riguarda località costiere.

L’anno scorso poi è arrivato il Covid-19, e anche qui l’effetto è stato tutt’altro che indolore. Secondo l’analisi pubblicata su Lavoce.info da Paolo Figini, docente di politica economica presso l’università di Bologna, in Italia nel 2020 gli arrivi internazionali sarebbero diminuiti del 61%, il turismo interno di circa il 40%. Le stime delle perdite, comprendendo anche l’indotto, oscillano tra i 71,8 e i 90,2 miliardi, all’incirca rispettivamente il 4 e il 5% del Pil. “Il reddito generato dal turismo si è praticamente dimezzato – scrive Figini –. In termini relativi, il turismo spiega così circa un terzo del crollo complessivo del Pil, perdendo molto di più del suo contributo relativo al reddito nazionale (che, prima della pandemia, era attorno al 6%)”.

Il Coronavirus è insomma la tempesta perfetta su un quadro però già gravemente dissestato, tanto per le economie sviluppate (ma fragili) quanto per quelle che non hanno ancora trovato la via del benessere. Per questo diventano ancora più importanti occasioni come quelle offerte proprio dal Cop26 o dalle discussioni sul Green Deal europeo, ideato proprio per affrontare le minacce rappresentate dai cambiamenti climatici e dal degrado ambientale e per rendere sostenibile il sistema produttivo europeo. Il tempo sta scadendo, anche per ripensare la nostra economia.

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