SCIENZA E RICERCA

Clima: il tempo sta per scadere

«Il costo dell’inazione sul clima», titolava giorni fa l’editoriale di Nature. Il direttore della rivista scientifica inglese si riferiva in maniera specifica ai costi economici. Che secondo uno studio, Country-level social cost of carbon, pubblicato su Nature Climate Change da un gruppo di studiosi comprendente l’italiano Massimo Tavoni (co-autore del quinto rapporto sui cambiamenti climatici dell’IPCC e co-direttore dell’International Energy Workshop) ammonta a livello globale ad oltre 15.000 miliardi di dollari l’anno: oltre 400 dollari per ogni tonnellata di biossido di carbonio di origine antropica emessa. A mero titolo di paragone, il Prodotto interno lordo dell’Italia supera di poco di 2.000 miliardi di dollari

La mancanza di azione nella prevenzione dei cambiamenti del clima prodotti dalle emissioni antropiche di gas serra ci costano dunque tantissimo. 

Ma quello economico non è né il solo né il principale dei costi dell’inazione. Le recenti tempeste tropicali – il tifone Mangkhut nelle Filippine e in Cina; l’uragano Florence negli Stati Uniti – hanno distrutto infrastrutture creando gravi disagi e, soprattutto, hanno ucciso decine di persone: una perdita di vite umane enorme.

Sono i costi umani prima ancora che quelli economici a chiedere che dall’inazione si passi all’azione. Le modalità dell’azione sono state indicate dagli accordi di Parigi del dicembre 2015: quasi tutti i paesi aderenti alle Nazioni Unite si sono impegnati a cercare di contenere l’aumento della temperatura media del pianeta entro i 2 °C e, possibilmente, entro gli 1,5 °C rispetto al livello di riferimento che è la temperatura media dell’epoca pre-industriale. 

Lo strumento principale di prevenzione è chiaro a tutti da decenni: l’abbattimento delle emissioni antropiche di quelli che (con un brutto termine) vengono chiamati gas climalteranti (una volta chiamati gas serra). Il che significa, a grana grossa, ridurre fino all’azzeramento l’uso dei combustibili fossili e smettere di distruggere le foreste.

Ma è il modo con cui a Parigi si è deciso di utilizzare questi strumenti per cercare di controllare i cambiamenti del clima che è piuttosto fragile. Perché l’impegno ad agire, per quanto solenne, è del tutto volontario. Il che significa che è scritto sulla sabbia. O, per dirla con le parole di Nature, genera inazione.

Tanto più pericolosa, questa inazione, perché – secondo un altro studio, Trajectories of the Earth System in the Anthropocene, pubblicato su PNAS, i Proceedings of the National Academy of Science degli Stati Uniti da Will Steffen, scienziato del clima in forze allo Stockholm Resilience Centre, dell’Università di Stoccolma, con un nutrito gruppo di suoi collaboratori – potremmo essere molto vicini alla soglia dell’irreversibilità e potrebbe essere non sufficiente contenere l’aumento della temperatura entro i 2 °C per evitare che il clima compia un salto drammatico e faccia della Terra un luogo molto caldo, con conseguenze sociali enormi, anche se difficili da valutare  in dettaglio.

Ebbene, di fronte a questa prospettiva il mondo non sta agendo. Non a sufficienza, almeno. Le emissioni di biossido di carbonio, per esempio, invece di diminuire sono addirittura aumentate nel 2017: dell’1,6%, dopo tre anni di relativa stabilità. La domanda di petrolio, nel medesimo anno, invece di diminuire è cresciuta dell’1,5%

Ma anche la volontà politica si è affievolita, almeno in alcuni paesi. Per esempio, gli Stati Uniti di Donald Trump che hanno annunciato di voler uscire dal sistema Parigi. Un annuncio di fatto analogo viene dall’Australia. Certo, la Cina sta ottenendo risultati abbastanza significativi nella prevenzione dei cambiamenti climatici. E l’Europa, sebbene non faccia passi avanti, non sta arretrando. Ma tutto questo probabilmente non basta.

È troppo tardi, ormai? E se non è troppo tardi, cosa possiamo fare, in dettaglio, e in che tempi?  

A queste domande risponderà lunedì 8 ottobre l’IPCC, l’Intergovernmental Panel on Climate Change: il gruppo di scienziati organizzati dalle Nazioni Unite per aggiornare continuamente le conoscenze acquisite sui cambiamenti climatici, sui loro effetti e, appunto, sulle azioni possibili per la prevenzione oltre che per l’adattamento.

L’IPCC è spesso criticata, per motivi opposti. Da un lato c’è chi sostiene che non dice la verità fino in fondo. Che la situazione è peggiore di quanto non traspaia dai suoi documenti. Al contrario c’è chi sostiene che l’IPCC dice troppo, perché molte delle sue affermazioni non sarebbero corredate da prove sufficienti.

In realtà l’IPCC - che non fa ricerca in proprio, ma realizza review delle conoscenze prodotte nei laboratori di tutto il mondo –, pur tenendo in qualche modo conto delle sensibilità politiche di quasi 200 rissosi paesi, elabora rapporti scientifici molto dettagliati e affidabili. E non c’è ragione di dubitare che quello che presenterà lunedì prossimo sarà, per l’appunto, dettagliato e affidabile.

Le voci di corridoio – che vanno prese come tali – annunciano che nel prossimo report gli scienziati dell’IPCC diranno che il tempo per cercare di restare dentro un aumento di 1,5 °C della temperatura media del pianeta non è scaduto. Ma sta per scadere. Non ci vorrà molto. Per cui occorrerà passare subito dall’inazione all’azione. La parola deve passare immediatamente alla politica.

I delegati di tutti i paesi aderenti alle Nazioni Unite si vedranno a fine anno in Polonia per decidere, di nuovo, modi e tempi. Molti governi vorrebbero adottare strategie politiche inedite. Il presidente francese Emmanuel Macron, per esempio, vorrebbe che il mondo decidesse di bloccare gli scambi commerciali con gli Stati Uniti se Donald Trump continuasse a insistere nella sua politica negazionista. 

Non sappiamo se e come tutte le nazioni del mondo aderiranno a una qualche forma di sanzione nei confronti di quella che resta la più grande economia del mondo. Ma, probabilmente, non è la strada dello scontro che può portare a un contrasto globale ai cambiamenti del clima. 

C’è bisogno, probabilmente, di un’assoluta concordia. Di un governo democratico mondiale dell’ambiente. Il guaio è che per realizzare questa utopia vecchia di secoli abbiamo, ormai, pochi giorni

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