SOCIETÀ

Colombia, i cortei contro il governo repressi con la violenza

Nos estan matando”, ci stanno uccidendo. La polizia colombiana spara dai blindati, dagli elicotteri, dalle moto. Spara ad altezza d’uomo, contro i manifestanti che a migliaia, dal 28 aprile scorso, scendono in piazza per manifestare la loro rabbia, decisi a sfidare il governo (di destra, del presidente Ivan Duque) sul terreno delle riforme. Ci sono studenti universitari, insegnanti, operai, professionisti, gruppi indigeni, sindacati, lavoratori d’ogni genere appartenenti alla classe media, ammesso che la definizione possa ancora avere un senso, dopo una pandemia che ha messo in ginocchio il paese (si stima che il 43% della popolazione versi in stato di povertà). Ma dall’altra parte ci sono le divise: migliaia di agenti antisommossa (Esmad) con un ordine perentorio nella testa, che arriva dal governo stesso e, via via, dai sindaci delle città più importanti, da Bogotà a Cali, a Medellín: stroncare il dissenso, a qualsiasi costo. E il costo sta diventando altissimo: almeno 31 le vittime finora (tra le quali un capitano di polizia), secondo stime ancora approssimative (ma sarebbero un centinaio i dispersi, di cui nulla più si sa). E un numero imprecisato di feriti, comunque centinaia, per non parlare degli arresti, delle violenze, delle torture, della violazione sistematica dei più elementari diritti. Sono gli agenti di polizia a essere scatenati, non i manifestanti. Al punto che perfino l’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite (OHCHR) ha diramato una nota per esprimere “profondo allarme” per quanto accaduto nei giorni scorsi nella città di Calì, capoluogo della regione del Cauca, nell’ovest del paese. «La situazione è estremamente tesa, con soldati e agenti di polizia schierati per sorvegliare la protesta, che finora è stata in gran parte pacifica», ha dichiarato la portavoce dell’Alto Commissariato, Maria Hurtado.  «Ricordiamo alle autorità colombiane la loro responsabilità di proteggere i diritti umani, compreso il diritto alla vita e alla sicurezza della persona, e di facilitare l’esercizio del diritto alla libertà di riunione pacifica».

In molti chiedono le immediate dimissioni del ministro della Difesa colombiano, Diego Molano, che ha reagito attaccando: «Non è la polizia il nemico dei cittadini, ma quei vandali che cercano di distruggere, di generare incertezza, di squalificare la nostra forza pubblica. Che si travestono e approfittano di queste manifestazioni per terrorizzare i colombiani». Per poi aggiungere: «L’azione della nostra forza pubblica si è svolta nel rigoroso rispetto della legge e nel rispetto dei diritti umani». Questi video, uno diffuso da Amnesty International, l’altro dal Guardian, mostrano un’altra verità. E in rete ce ne sono molti altri. Anche i testimoni, come riporta ancora il quotidiano britannico, accusano apertamente gli agenti: «È come se la polizia stesse aspettando che scenda la notte in modo che possano avvicinarsi e iniziare a sparare indiscriminatamente», ha raccontato un uomo che abita in uno dei quartieri più poveri di Calì. «I corpi si accumuleranno, i morti sopra i morti».

Oltre la riforma: la protesta continua

La protesta s’era accesa dopo la presentazione in Parlamento, il 15 aprile scorso, di una riforma fiscale che avrebbe dovuto aiutare la Colombia a uscire dalla recessione dovuta alla pandemia (una riforma da 6,3 milioni di dollari vitale per stabilizzare le finanze, mantenere il suo rating e finanziare programmi sociali). Ma i più colpiti dall’aumento delle tasse, e dalla riduzione delle esenzioni, erano i ceti medi e bassi, i lavoratori, che pochi giorni dopo hanno cominciato a scendere in piazza con cartelli con su scritto “Stanno derubando noi poveri, mentre danno tutto ai ricchi”. Il 28 aprile è stato indetto uno sciopero generale, ed è aumentata sia la quantità dei manifestanti sia il livello di tensione. A Bogotà elicotteri militari hanno sorvolato il corteo, mentre la polizia sparava lacrimogeni per disperdere i dimostranti. Il 2 maggio il presidente colombiano Ivan Duque ha annunciato il ritiro della riforma, e le dimissioni del ministro dell’Economia, Alberto Carrasquilla, nel tentativo di placare la rivolta. Tentativo fallito. La protesta ha preso ancor più corpo e voce, contro l’operato dell’intero governo. «Hanno ritirato la riforma, ma non l’hanno cambiata: non possiamo consentire che il governo di Duque continui a rendere la vita più difficile per i più poveri», ha dichiarato ad Al Jazeera la sindacalista Olga Cabos. Si stima che soltanto nell’ultimo anno 2,8 milioni di persone siano scivolate in una situazione di “estrema povertà” (con un reddito mensile inferiore ai 145mila pesos, pari a poco più di 31 euro), con oltre 500mila attività commerciali rimaste chiuse. Sotto accusa anche la gestione della pandemia del governo Duque, i lockdown prolungati e i continui cambi di strategia che non hanno risparmiato al paese oltre 76mila morti e il collasso degli ospedali. I manifestanti chiedono un aumento della sicurezza sociale, compresa la difesa dei “leader sociali”, una profonda riforma del corpo della polizia, e l’istituzione di un salario minimo per la fascia più povera della popolazione.

Scontri violenti si registrano in quasi tutto il paese: Bogotà, Calì, Medellin, ma anche Pereira, Bucaramanga, Santa Marta, anche con negozi saccheggiati, atti vandalici, autobus dati alle fiamme. Decine gli assalti ai Cai (Immediate Attention Command), piccole stazioni di polizia nei quali i manifestanti vedono l’emblema dei soprusi e degli abusi, e perciò luoghi da distruggere: 15 sono stati danneggiati la notte del 4 maggio scorso, soltanto a Bogotà. Così la polizia cambia metodo: giovedì scorso, durante lo sciopero generale indetto proprio per intensificare la protesta, un gruppo di dimostranti ha denunciato (anche con un video) di essere stato aggredito a Calì da un gruppo di persone in abiti civili, scesi dai camion della polizia. Martedì scorso l’esercito colombiano ha schierato carri armati all’ingresso nord di Bogotà. E’ la crisi più acuta dal 2016, da quando fu raggiunto un accordo con i guerriglieri delle Farc (le Forze armate rivoluzionarie della Colombia), che pose fine a oltre cinquant’anni di guerra civile (all’ex presidente colombiano Juan Manuel Santos Calderón fu assegnato perciò il Nobel per la pace). L’elezione di Duque, nel 2018, ha riacceso le tensioni. «Il governo continua a criminalizzare la protesta sociale e a stigmatizzarla perché ritiene sia infiltrata da guerriglieri», sostiene Pedro Piedrahita, professore di scienze politiche all'Università di Medellín. «La pubblica sicurezza della Colombia sta ancora operando sotto le dottrine anacronistiche dell’anticomunismo, di un nemico interno. I manifestanti non sono visti come cittadini ma come obiettivi militari legittimi che devono essere eliminati».

“No más violencia”

Ma la protesta va avanti, compatta, determinata e in larghissima parte pacifica, tra sit-in e preghiere in ricordo delle vittime. «Non dovete rispondere per nessun motivo con la violenza agli agenti. Abbiamo il nostro corpo, loro hanno le armi. La vita prima di tutto!», è il messaggio che gira tra i dimostranti su Whatsapp. Lo slogan più gridato è: “No más violencia”, basta con le violenze. Anche musicisti, attori e acrobati si sono uniti ai dimostranti per accentuare, con le loro espressioni artistiche, l’espressione pacifica delle proteste, per invitare al dialogo, per proporre una riflessione. «La reazione del governo non può essere quella di insultare i suoi cittadini», sostiene, sul quotidiano L’Expectator, José Manuel Sabucedo, professore di psicologia sociale all’Università di Santiago de Compostela. «Dal punto di vista politico, quello che dovresti desiderare è entrare in empatia con la popolazione, raggiungere accordi e la cosa peggiore che puoi fare è militarizzare. La gente protesta, ha il diritto di farlo quando qualcosa non piace. Ma un governo deve avere abbastanza empatia per gestirlo. Invece di provocare o aumentare il confronto, dovresti dire: fermiamolo. Parliamo. Se vogliamo la convivenza, questa è l’unica strategia che esiste per generare un sentimento inclusivo». 

Non sembra questa la linea scelta dal presidente Ivan Duque, alle prese con un clamoroso calo di popolarità che potrebbe compromettere le sue chances di rielezione, nel 2022. Perché da un lato c’è il commissario per la pace Miguel Ceballos, nominato proprio per superare la protesta sociale, che dichiara: «Non ci sono linee rosse al dialogo», che il governo «ha tenuto conto di molte delle richieste avanzate dal “Comitato nazionale per la disoccupazione” nelle specifiche di emergenza», vale a dire tutela dei più fragili, fine delle violenze, vaccinazioni di massa. Annunciando poi un incontro, tra una delegazione del Comitato e il presidente Duque, che si terrà il 10 maggio alla Casa de Nariño, la residenza ufficiale del Presidente della Colombia. Ma dall’altro lato c’è la piazza, la repressione feroce degli agenti antisommossa che non accenna a calare d’intensità, i carri armati dell’esercito. Mentre l’ong Temblores denuncia sempre più frequenti casi di stupri e molestie sessuali a danno delle manifestanti fermate, spesso di notte, spesso all’interno delle stazioni di polizia. 

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