SOCIETÀ

Comunicare l’emergenza ambientale: una sfida ancora aperta

Di recente, il Programma ambientale delle Nazioni Unite (UNEP) ha definito l’emergenza ambientale oggi in atto una “triplice crisi planetaria”, costituita da cambiamento climatico, crollo della biodiversità e inquinamento, tre processi complessi e che interagiscono tra loro, rinforzandosi a vicenda. La crisi ambientale è causata da una pluralità di fattori, si verifica su scale temporali molto lunghe, ha effetti spesso difficili da individuare a livello percettivo, si esplica su scala globale, con effetti regionali molto variegati.

Tutte queste caratteristiche la rendono, per così dire, una “emergenza-non-emergenza”: non induce in noi quel senso di paura e di urgenza che invece viene innescato da eventi che minacciano la nostra incolumità in modo più evidente, come nel caso di un terremoto, un’alluvione o un’epidemia. Proprio il confronto con quest’ultimo evento – nello specifico, la pandemia scoppiata nel 2020, causata dalla diffusione del SARS-CoV-2 – è il filo conduttore di un dialogo che si terrà al Convegno nazionale di comunicazione della scienza organizzato dalla Sissa di Trieste tra i giornalisti scientifici Roberta Villa e Jacopo Pasotti.

Un’emergenza globale, ma invisibile

Le differenze tra queste due esperienze, che per un periodo si sono sovrapposte (negli anni della diffusione del Covid, infatti, è anche accelerato l’avanzamento della crisi ambientale), sono molto istruttive. Pasotti, scrittore e giornalista scientifico che da tempo si è specializzato nella comunicazione della crisi climatica, afferma che al di là dei tratti di somiglianza, che sono la globalità delle due crisi e la necessità di una risposta internazionale sia sul piano logistico che politico, è di particolare interesse l’analisi delle differenze tra questi due fenomeni. «La principale diversità è che, paradossalmente, è difficile riconoscere l’emergenza climatica come emergenza: nella percezione umana, un’emergenza è un evento abbastanza ben definito – un terremoto, un’eruzione vulcanica, un incendio nel mio stabile – con un inizio e una fine in un orizzonte temporale percepibile da noi esseri umani. Questo paradigma, tuttavia, non funziona con l’emergenza climatica. L’Italia, ad esempio, ha ufficialmente dichiarato di essere in emergenza climatica nel 2019, ma è difficile sostenere che stia agendo come agirebbe in risposta a un’emergenza percepita davvero come tale a livello nazionale».

Uno dei nodi cruciali per la comunicazione consiste nell’individuare metodi efficaci per affrontare la complessità e l’incertezza che caratterizzano la triplice crisi planetaria. Mentre il tema non era mai stato affrontato in relazione alle questioni di salute pubblica, come è emerso con evidenza allo scoppiare della pandemia, nell’ambito della comunicazione dell’emergenza ambientale di questo tema di discute da anni, «almeno da un decennio» specifica Pasotti. Eppure, «se ne discutiamo da più di un decennio è perché ancora non abbiamo trovato una soluzione vera e propria. Un problema centrale si pone già nella scelta dei termini: concetti come complessità o incertezza hanno significati molto diversi all’interno della comunità scientifica e nella società. Per chi fa scienza, l’incertezza è un insieme di valori statistici che forniscono una stima della certezza del dato a disposizione, di quanto questo sia definibile, circoscrivibile. Per la società, invece, certezza e incertezza sono due mondi separati: la prima viene costantemente cercata, mentre la seconda genera insicurezza (che infatti ne è sinonimo) e paura. Lo stesso vale per la complessità: anch’essa genera paura, e non a caso siamo portati a cercare soluzioni semplici per problemi complessi».

«D’altra parte – prosegue il giornalista – non affrontare questi temi, o provare a offrire soluzioni iper-semplificate, si è rivelato inefficace». Bisogna certamente spiegare, provare a mettere ordine, tenendo a mente, però, che «il limite tra semplificare la complessità e sovrasemplificarla è labile». Questo cortocircuito, secondo Pasotti, è stato almeno in parte risolto dalla comunicazione nel corso della pandemia: «In un caso più circoscritto come è stato quello del Covid, la questione di come comunicare complessità e incertezza si è in qualche modo risolta. Vorrei apprendere da Roberta Villa (che è giornalista scientifica specializzata sui temi della salute, n.d.r.) quali tra le lezioni apprese durante la crisi pandemica potrebbero essere applicabili nell’ambito della crisi ambientale».

Un’emergenza scientifica, ma politica

Come tutte le questioni di interesse pubblico che toccano le nostre abitudini, le nostre convinzioni e i nostri interessi, anche la crisi ambientale è oggetto di un dibattito polarizzato. Per questo, si riflette molto su quale sia la migliore strategia comunicativa: una sorta di disintermediazione, in cui si vada incontro alle richieste e alle esigenze del pubblico, o una comunicazione più istituzionale, mediata da esperti? Non è raro che questi due approcci vengano contrapposti, ma secondo Jacopo Pasotti tale contrapposizione può essere evitata.

«Nell’informazione pubblica, è fondamentale che gli esperti e le esperte abbiano modo di parlare, e che siano ascoltati. Il grosso problema è la definizione dell’esperto: spesso, infatti, si dà spazio a scienziati che, seppur esperti nella propria materia, non sono necessariamente esperti in materia climatica. Se per esempio un fisico nucleare, magari riconosciuto come esperto a livello internazionale, si esprime sul clima, bisogna ricordare che quella non è la sua area di competenza specifica. Ma, una volta individuati gli esperti con i giusti criteri, il loro contributo è fondamentale.

«È poi importante – prosegue Jacopo Pasotti – interrogarsi sulle modalità che tali esperti adottano nel dialogare con il pubblico: vi sono casi in cui si adotta una forma di comunicazione “verticale”, senza preoccuparsi di ascoltare le esigenze del pubblico, che può avere interessi e preoccupazioni diverse da quelle di una scienziata. Da un lato, dunque, bisogna educare il pubblico a riconoscere gli esperti, ma è altrettanto importante educare gli esperti ad ascoltare il pubblico, ed eventualmente ad ammettere i limiti di quel che dicono. D’altra parte, soprattutto nel caso della scienza del clima, bisogna riconoscere che sono stati fatti passi da gigante in questo senso: decenni di riflessione sul tema e la grande esperienza accumulata nella conversazione con il pubblico hanno dotato la comunicazione del clima di molti strumenti per trattare in modo efficace anche una materia tanto complessa».

L’esperienza e la riflessione, invece, sono proprio quanto è mancato nella comunicazione pubblica durante la pandemia. Come ricorda Pasotti, allo scoppio della pandemia diversi scienziati senza esperienza nell’ambito della comunicazione sono stati chiamati a condividere le proprie conoscenze per fare chiarezza su quanto stesse accadendo. E, in risposta all’incertezza e alla costante evoluzione delle conoscenze disponibili, su molti temi gli esperti si sono trovati in disaccordo. Questa è un’altra differenza tra la comunicazione della pandemia e quella della crisi climatica: nel secondo caso, infatti, la comunità scientifica ha raggiunto un consenso unanime sulle caratteristiche del fenomeno, sulle sue cause e conseguenze.

Ma la più grande somiglianza tra le due crisi, come abbiamo sottolineato in apertura, è la loro natura globale. Entrambe, quindi, richiedono un approccio altrettanto globale e soluzioni sistemiche. La più grande sfida della comunicazione sulla crisi ambientale è tutta qui: riuscire a trasmettere la necessità di affrontare questa emergenza in maniera olistica, tenendo insieme le evidenze scientifiche e la dimensione politica, con l’obiettivo di fornire una cornice narrativa che ci aiuti a comprendere meglio l’inedita situazione che stiamo vivendo.

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