SOCIETÀ

Il concetto di razza negli studi di genetica tra passato e presente

La genetica si è lasciata alle spalle il concetto di razza umana? Non completamente, anche se, come ha sottolineato un recente studio, la parola “razza” non viene più usata con la stessa frequenza di settant’anni fa.

Un team internazionale di ricercatori ha infatti misurato l’occorrenza di questo termine negli articoli pubblicati sull’American journal of human genetics dal 1949 fino al 2018. I risultati hanno rilevato un progressivo abbandono dell’uso di questo termine da parte dei genetisti nelle pubblicazioni scientifiche. Nel decennio 2009-2018, si è parlato di “razza” solo nel 4% degli articoli considerati, contro una frequenza del 22% durante gli anni Cinquanta. Allo stesso tempo, negli ultimi anni è aumentato l’uso di termini come “etnia” o “discendenza”. Eppure, smettere di utilizzare questa parola non vuol dire necessariamente che il concetto di razza umana, che secondo buona parte della comunità scientifica è infondato dal punto di vista biologico, non influenzi ancora la mentalità di chi lavora nel campo della ricerca scientifica e della pratica clinica, specialmente negli Stati Uniti.

Abbiamo affrontato l’argomento con il professor Guido Barbujani, genetista all’università di Ferrara, che non si è detto sorpreso dei risultati della ricerca in questione e ne ha evidenziato alcuni limiti.

“L’articolo rileva che, con l’andare del tempo, alcuni concetti che rimandano alla scienza razziale del Settecento, dell’Ottocento e anche di parte del Novecento, sono stati sostituiti da termini più eufemistici”, spiega. “Non indaga, però, se i concetti razziali siano giustificati nell'ambito scientifico, né se siano utili per l'analisi dei dati”.

L’intervista completa al professor Guido Barbujani. Montaggio di Elisa Speronello

Per capire meglio di cosa stiamo parlando, è utile partire proprio dal significato della parola “razza” che, come spiega il professore, “identifica dei gruppi all’interno di una specie che si sono evoluti in maniera relativamente indipendente e che, con l'andare del tempo, tenderanno a formare nuove specie. Parlando di razze animali possono venirci in mente, ad esempio, quelle canine o equine – che sono frutto della selezione artificiale attuata degli esseri umani – e anche quelle degli scimpanzé. Infatti, all’interno di questa specie è possibile osservare quattro gruppi biologicamente ben distinti che abitano quattro territori diversi. Per lungo tempo si è dibattuto anche riguardo all’esistenza delle razze umane, chiedendosi se avesse senso leggere le differenze tra individui secondo la definizione di razza”.

Questa controversia non è stata ancora del tutto risolta. Infatti, continua Barbujani, “nell’ambito della biomedicina e della genetica clinica, soprattutto negli Stati Uniti d’America, il concetto di razza è ancora molto radicato. Per fortuna, però, sappiamo che le cose stanno cambiando. Nel 2003 il New England journal of medicine aprì un grande dibattito su questo tema. Da una parte si schierarono molti antropologi e genetisti, i quali sostenevano che il concetto di razza avesse ormai perso significato alla luce degli studi sul DNA. Di diverso parere erano altri studiosi, tra cui il biostatistico americano Neil Risch, secondo i quali la storia dell'evoluzione umana era caratterizzata dalla progressiva separazione tra gruppi ancora riconoscibili e non tenerne conto significava fare cattiva medicina. Per quasi vent’anni, da quel momento in poi, è stato molto difficile pubblicare nuovi dati scientifici su questo tema, poiché nelle riviste di antropologia il concetto di razza veniva considerato totalmente superato e inutile, mentre su quelle biomediche si rischiava di essere accusati di voler fare propaganda politica rifiutandosi di riconoscere delle reali differenze a livello biologico. Oggi la questione è stata riaperta: quest’anno, infatti, lo stesso New England Journal of medicine ha tenuto un altro dibattito sul tema della razza, dal quale è emerso che anche in ambito biomedico questo termine inizia ad essere considerato fuorviante”.

Sappiamo però che c’è voluto molto tempo perché il concetto di razza venisse messo in discussione. La suddivisione dell’umanità in razze, infatti, si basa storicamente sull’osservazione delle differenze morfologiche tra gruppi di persone, come il colore della pelle, i caratteri somatici o la forma del cranio.

“Per più di due secoli lo studio delle popolazioni umane non disponeva di molti dati su cui fondarsi”, spiega infatti Barbujani. “Per questo motivo, gli scienziati cercavano di sviluppare le loro ipotesi a partire da ciò che era possibile osservare a occhio nudo. Eppure, questo modo di procedere creava non pochi problemi. Sappiamo, infatti, che persone che vivono in luoghi molto lontani possono somigliarsi per quanto riguarda il colore della pelle o la forma del cranio.

Inoltre, un altro dilemma (che non è mai stato risolto) riguardava il numero delle razze umane esistenti. Nel corso della storia sono stati realizzati diversi cataloghi, alcuni dei quali comprendevano 2, 3 o 6 razze, mentre altri ne rilevavano addirittura 200. Fin dal 1860, nei censimenti americani veniva richiesto alle persone di specificare la propria razza: ebbene, possiamo notare che ogni 10 anni la lista di categorie razziali tra cui scegliere veniva modificata. Ad esempio, alla fine del secolo scorso, sono comparse delle nuove razze come “samoano” o “abitante di Guam”, che non sono riconducibili, naturalmente, a una improvvisa evoluzione che ha favorito la comparsa di un nuovo gruppo biologico, ma piuttosto al fatto che queste comunità negli Stati Uniti d’America sono diventate abbastanza influenti da farsi riconoscere come razze.

Insomma, non è possibile, dal punto di vista biologico, stabilire dei chiari limiti fra un gruppo e l’altro. Allo stesso modo, classificare nella stessa razza persone che possono essere molto diverse tra di loro dal punto di vista genetico, non aiuta certo la nostra comprensione dei fenomeni biologici. D’altronde, di recente sono state scoperte nuove informazioni sull’evoluzione umana proprio a partire dallo studio delle nostre comuni origini africane, abbandonando, quindi, il grossolano criterio di classificazione delle razze e concentrandosi piuttosto sulle differenze genetiche tra singoli individui”.

Studiando la storia, sappiamo che la ricerca scientifica basata sulla teoria delle razze ha avuto anche delle gravi ripercussioni sociali. ““Razza” e “razzismo” hanno la stessa etimologia, ma di certo non lo stesso significato”, osserva Barbujani. Il razzismo, infatti, riguarda le politiche, le azioni e i comportamenti che violano i diritti delle persone, mentre lo studio delle razze riflette il tentativo di fotografare le differenze tra gruppi di persone. “L'antropologia e la genetica sono state scienze razziste per molto tempo”, continua il professore. “In passato, infatti, si credeva che la classificazione delle persone basata sull’aspetto fisico fosse utile anche per delineare alcuni specifici tratti del comportamento, o addirittura dell’etica, caratteristici per ogni gruppo razziale. Il primo a sostenere questa tesi fu il conte francese Joseph Arthur de Gobineau che, nel suo saggio Sulla disuguaglianza umana, mal interpretava i dati provenienti dalla biologia per promuovere il suo messaggio sociale e politico conservatore, secondo il quale chi occupava i livelli più bassi nella scala sociale doveva la sua condizione alla sua struttura genetica, che lo rendeva incapace di comportarsi come invece era in grado di fare chi si trovava in cima alla scala sociale.

Come sappiamo, le cose sono cambiate grazie agli studi di genomica, che hanno convinto gli studiosi ad abbandonare il concetto di razza e a considerare che due persone, pur classificate all'interno della stessa razza, possono essere molto diverse.

Ma il concetto di razza, come abbiamo detto, è ancora molto radicato in paesi come gli Stati Uniti dove anche ai genitori che iscrivono i loro figli all’asilo viene richiesto di indicare a quale razza appartengono, dovendo scegliere tra categorie come “caucasici”, “africani americani”, “nativi americani” o talvolta addirittura “latinos” (che, se ci pensiamo, è una definizione che non ha niente a che vedere con la biologia, poiché descrive semplicemente persone che in casa parlano spagnolo e che possono provenire quindi da ogni parte del mondo). Se queste persone dichiarano di appartenere a quelle razze considerate svantaggiate dal punto di vista sociale, possono ottenere degli aiuti che permettono loro di accedere alle scuole migliori.

Eppure, se continuiamo a ragionare in termini razziali, invece che sulle differenze e le somiglianze genetiche tra singoli individui, perdiamo delle opportunità anche dal punto di vista clinico e terapeutico. Bisogna infatti rendersi conto che individui provenienti dalla stessa regione e che hanno tratti somatici simili possono anche essere molto diversi dal punto di vista biologico, e viceversa. Ad esempio, infatti, quando viene effettuata la ricerca dei donatori per i pazienti che hanno bisogno di un trapianto, si deve essere consapevoli che persone molto diverse nell’aspetto fisico e che vivono lontane possono essere geneticamente compatibili”.

Insomma, è alla luce di evidenze scientifiche di questo tipo che può essere spiegata la progressiva tendenza, da parte dei genetisti, ad abbandonare la parola “razza” nelle pubblicazioni scientifiche e a sostituirla con altri termini come “etnia” o “discendenza”. Purtroppo, però, sembra esserci ancora molta confusione riguardo al significato di queste parole.

“Per giungere a una definizione condivisa di questi termini sarebbe necessario un dialogo costruttivo tra studiosi provenienti da diversi settori scientifici”, commenta il professor Barbujani. “L’antropologo culturale Marco Aime definisce un gruppo etnico come un gruppo di persone convinte di appartenere allo stesso gruppo etnico. Se invece utilizziamo tale espressione come un sinonimo di razza, e quindi per riferirci a un gruppo di individui biologicamente omogenei, allora non si fa nessun progresso. Questo ci fa capire quanto sia importante il dialogo tra esperti provenienti da diversi settori della ricerca con l’obiettivo di abbandonare certi condizionamenti sociali”.

Inoltre, Barbujani solleva l’importanza di affrontare questi argomenti anche per rendersi conto di alcuni limiti della scienza. “Ci troviamo in un periodo in cui, a causa della pandemia, viene richiesto alla scienza di darci delle sicurezze che essa non può darci e questo spinge le persone a mettere in discussione non solo i dati ricavati dalla ricerca, ma addirittura il concetto stesso di conoscenza scientifica.

Allo stesso modo, gli studiosi dell'evoluzione umana cercano di ricostruire un processo durato sei milioni di anni sulla base di resti di ossa, manufatti antichi e pochi pezzi di DNA: si tratta quindi di un'operazione molto complessa. Nel corso dei secoli, lo studio delle popolazioni umane ha fatto dei grandi progressi, ma restano ancora molte domande a cui non è stata data una risposta universalmente accettata. La suddivisione dell’umanità in razze, a mio parere, non è un tema su cui ci sia ancora da discutere: vanno piuttosto tenute in conto le conseguenze di questo cambio di paradigma.

È senz’altro positivo che il tema della razza sia riemerso e che il dibattito sia stato riaperto non come conseguenza di nuove scoperte scientifiche ma grazie all’attivismo di alcuni gruppi minoritari che, soprattutto negli Stati Uniti d’America, premono per essere accettati socialmente. Le loro istanze hanno influenzato non tanto la ricerca scientifica in sé, quanto l’impostazione mentale dei ricercatori. Dobbiamo infatti considerare che tutte le persone, scienziati compresi, hanno una propria visione del mondo che impedisce loro di essere completamente oggettive nel loro lavoro. Esserne consapevoli è un punto di partenza importante”.

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