SCIENZA E RICERCA

Coronavirus: metodi e piani per il contenimento delle infezioni

Davanti all’aumento dei casi accertati di coronavirus in Italia, al punto che nel giro di pochi giorni il nostro Paese è diventato il terzo al mondo per numero di contagi, è inevitabile chiedersi a cosa sia dovuta questa discrepanza rispetto ad altri paesi europei, dove l’epidemia sembra decisamente più contenuta. Il dato balza agli occhi in maniera ancora più evidente se si pensa al blocco dei voli diretti da e per la Cina, misura introdotta dal governo italiano lo scorso primo febbraio, sulla cui efficacia esperti come Walter Ricciardi, membro esecutivo dell'Oms, hanno espresso dubbi, se non altro per la facilità con cui può essere aggirata facendo scalo in altri aeroporti. Le spiegazioni con cui cercare di interpretare la situazione italiana che, rapportata a quella dei paesi vicini, appare anomala possono essere diverse. L’elevato numero di casi accertati è dovuto all’esecuzione di test diagnostici su larga scala? Ricordiamo che in Italia sono stati eseguiti quasi 10 mila tamponi in meno di una settimana, un volume che non ha pari in Europa. Oppure il fatto che altri paesi europei, pur in presenza di contagi accertati, finora siano riusciti a contenere la diffusione del coronavirus è il risultato di pratiche migliori nei protocolli sanitari? In Francia, ad esempio, già a metà gennaio erano stati accertati alcuni casi di contagio, ma non si è verificata nessuna crescita esponenziale dell’epidemia.

Per approfondire come è gestita la situazione in Francia, ma anche per analizzare le misure di contenimento valide su scala globale abbiamo intervistato l’epidemiologa Chiara Poletto, ricercatrice all’Inserm, Istituto nazionale francese di salute e ricerca medica.

"In Francia - spiega l'epidemiologa Chiara Poletto - dopo l’individuazione dei casi si è partiti subito con il contact tracing: significa cercare i possibili contatti avuti dalle persone positive, isolarli ed effettuare i test. Queste sono le strategie che si adottano inizialmente in paesi lontani dalla sorgente di un’epidemia per evitare che la stessa attecchisca al nuovo territorio. Recentemente si è però scoperto che queste strategie sono in parte fallaci per il coronavirus perché questo virus causa molte infezioni asintomatiche e le persone che le contraggono sono comunque in grado di infettarne altre. Abbiamo fatto di recente uno studio sulle infezioni da coronavirus che si sono verificate fuori dalla Cina e, in base alle nostre stime, su dieci casi importati, sei sono stati persi e questo significa che la possibilità di perdere i primi episodi di contagio che arrivano in un altro paese è un'evenienza concreta e probabilmente è quello che è successo in Italia. I primi casi arrivati, quelli che hanno dato luogo a questa catena di trasmissione che al momento vediamo, non sono stati rintracciati e di conseguenza il focolaio è stato individuato quando c’erano già diversi contagi da parte di queste persone che magari presentavano sintomi non gravi e quindi non sono state identificate". Una circostanza che spiega come in Italia non sia stato possibile rintracciare il cosiddetto paziente 0, la persona da cui avrebbe avuto origine il focolaio nell'area lombarda.

Ad aver reso ancora più difficile la tempestiva individuazione dei primi casi di coronavirus importati dalla Cina è stata anche la sovrapponibilità dei sintomi rispetto a quelli influenzali e non può essere escluso che, nelle scorse settimane, alcune diagnosi ricondotte ad influenza, fossero in realtà coronavirus. "Questo - conferma la ricercatrice - è un elemento molto importante. Per definire un caso epidemiologico si considerano diversi fattori: non si guarda solo ai sintomi, perché in questo caso i sintomi sono veramente aspecifici, ma si valuta, ad esempio, se la persona è stata potenzialmente a contatto con il coronavirus. Quindi inizialmente era più facile, bastava chiedere alla persona se era stata in Cina. Ora diventa via via più difficile perché i territori a rischio di possibile esposizione al virus stanno aumentando. Chiaramente la confusione dei sintomi rispetto ad una normale influenza non è qualcosa che aiuta l’indagine, la sorveglianza e il contenimento". Ed è evidente che in Italia, prima che fossero introdotti i pre-triage e che fossero rafforzate le misure di protezione per medici e infermieri, l'accesso ai pronto soccorso e ai reparti da parte di persone che si sono poi rivelate contagiate può aver contribuito alla diffusione del virus.

Ma come possiamo prevedere che evolva l'epidemia nei prossimi giorni in Europa e, più nello specifico, in Italia e in Francia? "Le previsioni sono molto difficili - prosegue la ricercatrice dell'Istituto nazionale francese di epidemiologia e ricerca medica - perché dipendono da tantissimi fattori. Direi che in questa fase l'aspetto critico è la capacità di intervento dei Paesi che in questo momento fronteggiano l’epidemia: in Cina vediamo che i casi stanno cominciando a calare ma d’altra parte sappiamo che la Cina ha saputo adottare delle misure estremamente forti, quasi al punto da essere considerate draconiane. Con il senno di poi valuteremo se queste misure avrebbero potuto essere più leggere o meno, però il dato di fatto è che al momento si vede che sono state efficaci. La domanda è: i Paesi che invece adesso vedono crescere i casi di contagio saranno in grado di adottare misure simili? Si tratta di un virus nuovo, con caratteristiche a cui non siamo abituati e bisogna attrezzarsi a reagire in modo nuovo, per alcuni versi anche un po’ drastico".

In Italia in meno di una settimana sono stati effettuati circa 10 mila tamponi e il 95% dei campioni ha dato esito negativo. Il governo italiano ha adesso deciso di cambiare strategia e iniziare ad effettuare il tampone sono ai casi sintomatici: una scelta che segue le linee guida dell'Oms. "Dipende ovviamente anche dalla fase dell’epidemia - spiega l'epidemiologa Chiara Poletto - bisogna tener conto dei costi e del fatto che ci sono delle capacità di laboratorio che non sono infinite. E generalmente nelle epidemie ci sono più fasi: una fase iniziale in cui ci sono pochi casi e si può fare una ricerca approfondita intorno a questi casi, nelle fasi in cui invece il numero di infetti comincia ad aumentare bisogna riadattare i metodi di sorveglianza per poter star dietro al propagarsi dell’infezione in maniera pratica". E sulle strategie di contenimento dell'epidemia la ricercatrice spiega che "questo deve essere fatto con una prospettiva anche di collettività perché magari alcune persone possono sentirsi meno a rischio, almeno dal punto di vista delle complicanze, ma l’obiettivo è proprio ridurre il numero di casi, ridurre la diffusione del virus. Quindi norme igieniche, lavarsi le mani, non toccarsi il viso, ridurre anche un po’ i contatti - questo sicuramente, nei limiti del possibile, è importante - anche perché se l’epidemia si trasmette tanto e forse contenerla non è così facile, però ritardarla e diluire nel tempo la sua propagazione è comunque molto importante. Perché se i casi si presentano tutti nello stesso momento, e di conseguenza anche i casi gravi, gli ospedali possono trovarsi in difficoltà. Un ritardo nell’ondata epidemica è un aspetto, dal punto di vista pratico, molto importante".

Il team di ricerca di Chiara Poletto ha lavorato anche ad uno studio sulle capacità di risposta del continente africano nel caso in cui il coronavirus dovesse diffondersi in modo massiccio anche in quei territori. "Abbiamo incrociato diverse basi di dati, da un lato i dati relativi ai flussi aerei. Sappiamo che c’è una forte comunità di cinesi in Africa, un forte legame tra l’Africa e la Cina. Per quantificare questo legame abbiamo usato i dati dei viaggi aerei, il numero di persone che viaggiano da una certa origine a una certa destinazione e quindi da qui abbiamo quantificato l’esposizione dei paesi africani ai territori cinesi. Questo ci ha dato una stima del rischio di importazione di nuovi casi in Africa. Dopodiché abbiamo cercato di quantificare la preparedness, quindi quanto un paese africano è preparato ad affrontare casi importati. Abbiamo discusso prima di contact tracing, sorveglianza attiva, test diagnostici: sono tutte azioni molto costose che richiedono sistemi sanitari sviluppati. Ci sono degli indicatori riguardo alla preparedness, ma esistono altri indicatori che combinano questi aspetti a quelli socio-economici. Abbiamo usato diversi indicatori perché ognuno è più attento ad un certo aspetto. Questo ci ha permesso di confrontare il rischio dei paesi con la loro capacità di far fronte a questo rischio e abbiamo visto che, questa è la buona notizia, i paesi più a rischio perché più connessi con la Cina, sono anche quelli più preparati, però ci sono anche dei paesi che hanno un livello di rischio intermedio e tra questi alcuni sono preparati ma altri meno. Questo studio fornisce proprio delle cifre, degli aspetti quantitativi che aiutano poi le autorità di salute pubblica a stabilire delle priorità nella gestione delle risorse".

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