CULTURA

A cosa servono le storie?

Un collega romanziere molto più famoso e molto più bravo di me, il nordamericano Paul Auster, ha un’idea dell’arte che oggi è particolarmente diffusa: «L’arte è inutile» ha scritto qualche tempo fa. E ha proseguito: «Ma cos’ha di male l’inutilità? Io sostengo che il valore dell’arte risieda nella sua inutilità. È quello che ci definisce come esseri umani, fare qualcosa per puro piacere, per la grazia di farlo».

Con tutto il rispetto per Auster, io non sono d’accordo. Prendiamo, per esempio, la letteratura. La scienza ha ormai dimostrato che le narrazioni possiedono un’utilità inestimabile: ci rendono più empatici, più disposti a comprendere e ad ascoltare gli altri, più capaci di nominare i nostri sentimenti e le nostre angosce e di affrontarle. Insomma, più adatti alla vita, più bravi a muoverci in società.

Del resto, basta rivolgere uno sguardo alle nostre spalle per capire che è davvero così. Fin dai tempi dei cacciatori-raccoglitori, raccontare storie è la forma più antica che l’umanità abbia elaborato per trasmettere esperienza. Noi sapiens siamo infatti l’unico animale che non può fare a meno dei racconti, in tutte le loro forme, che ne produce e ne consuma da quando è un cucciolo fino al momento della morte, che lo fa perfino quando dorme o sogna a occhi aperti. Se le narrazioni fossero davvero  inutili, come sostiene Auster, la logica utilitaristica dell’evo­luzione avrebbe ben presto eliminato quella predisposizione dalla vita umana, non potendo permettere un simile spreco di tempo ed energia. E invece, eccoci qua, decine di migliaia di anni dopo, a continuare a raccontare storie.

Perché le varie forme di narrazione artistica (dai romanzi ai film, dalle serie televisive ai videogiochi), almeno quelle che mettono in campo personaggi con motivazioni complesse e profonde, mondi inesplorati che ci costringono ad affrontare nuove esperienze, sono una specie di gioco cognitivo, un’arcaica realtà virtuale che simula i problemi umani, una fonte di apprendimento attraverso le esperienze degli altri che diventano nostre, un collante sociale che unisce le persone. Le storie, insomma, hanno anche una finalità biologica, come sostengono molti teorici dell’evoluzione, fra i quali Brian Boyd, Steven Pinker o Michelle Scalise Sugiyama.

Non basta. Numerosi studi psicologici o di scienze cognitive hanno verificato che i lettori forti di fiction hanno competenze sociali migliori di quanti leggono principalmente non-fiction. E che le narrazioni sono sempre associate a migliori prestazioni della memoria, sono più facilmente comprensibili e implicano tempi di lettura più rapidi, senza perdere una virgola della loro complessità. 

Graesser e Ottati affermano che le narrazioni possiedono uno «status privilegiato» nella cognizione umana. È comprensibile: il nostro cervello non è una semplice «telecamera» che registra la realtà. Come scrive il premio Nobel Eric Kandel, «il cervello non si limita a percepire il mondo esterno riproducendolo fedelmente, come una sorta di fotografia tridimensionale, ma ricostruisce la realtà solo dopo averla analizzata nelle sue parti componenti… Perciò, la convinzione che le nostre percezioni siano precise e fedeli è solo un’illusione. Noi ricreiamo, nel nostro cervello, il mondo esterno in cui viviamo». Insomma, in qualche modo, ricreando la realtà, il cervello la inventa, anzi: la racconta, proprio come uno scrittore concepisce un romanzo e un lettore lo decifra, presentandola poi sotto forma di narrazione al nostro Io

Come mi ha detto una volta una signora a Pescara durante la presentazione di un mio libro, noi sapiens non siamo null’altro che un fascio di racconti. E lo scopo evolutivo di questo complesso meccanismo è evidente: ricreando la realtà passata e presente a partire dai dati esterni e da ciò che è immagazzinato nella memoria (insomma, raccontandosela), il nostro cervello è in grado anche, e soprattutto, di pre-vedere il futuro, di immaginarlo, di proiettarsi a lungo termine in una maniera che nessun altro animale può fare. Il cervello è, insomma, una «macchina di futuro».

Perciò la letteratura, le storie, le narrazioni servono, eccome. Oggi più che mai. Perché l’empatia tra gli esseri umani si sta drammaticamente perdendo, proprio quando molte delle sfide più difficili del nostro tempo dovrebbero essere risolte in maniera collettiva e solidale: dal cambiamento climatico alle crisi migratorie, dai pericoli delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale alle nuove disparità e ingiustizie globali. Da secoli, la letteratura ci ha sempre raccontato i drammi dell’umanità, facendoci «vivere» anche realtà non sperimentate in prima persona, sviluppando la nostra empatia. L’Ulisse dell’Odissea è evidentemente imparentato con le migliaia di emigranti che oggi attraversano il Mediterraneo per raggiungere l’Europa o il Messico per arrivare negli Stati Uniti. E DiFred del Racconto dell’ancella fa «vivere» anche a noi uomini l’insopportabilità della discriminazione nei confronti delle donne. E via di questo passo. 

Come ha scritto Alberto Manguel, «la grande letteratura, perfino quando è stata scritta migliaia di anni fa, racchiude una lezione anche per i lettori del presente. E forse sarà proprio la letteratura, con la sua intrinseca capacità di renderci più empatici, a salvarci da noi stessi».

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