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Covid-19 e malattie oncologiche: l’impatto della pandemia a un anno di distanza

Si stima possano essere stati circa un milione i casi di cancro non diagnosticati in Europa a causa della pandemia da Covid-19 e 100 milioni gli screening non effettuati, portando a diagnosi più tardive e a una minore sopravvivenza complessiva. Fino a una persona su due con potenziali sintomi riferibili al cancro non è stata inviata urgentemente per la diagnosi e un paziente su cinque in Europa non riceve ancora il trattamento chirurgico o chemioterapico di cui necessita. Sono questi i dati riferiti dall’European Cancer Organisation che, nelle scorse settimane, ha lanciato la campagna Time to act, proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica ed evitare che la pandemia rallenti la lotta contro il cancro.

All’argomento Il Bo Live ha dedicato un approfondimento nei mesi scorsi e già in quell’occasione la collega Barbara Paknazar, oltre a fornire un quadro epidemiologico completo sul cancro a livello globale e in Italia in particolare, sottolineava quanto la diagnosi precoce e i progressi compiuti in ambito terapeutico siano stati fondamentali per aumentare la capacità di cura delle patologie oncologiche. Tuttavia, riferiva altresì che l’emergenza Covid-19, durante la prima ondata di contagi ha comportato una sospensione temporanea delle attività di screening: complessivamente allora si stimava che nei primi mesi del 2020 nel nostro Paese fossero stati rimandati circa 1,5 milioni di esami di screening. Senza contare tutte le persone che, magari in presenza di sintomi, non si sono rivolte al medico di base o alle strutture ospedaliere per timore del contagio.


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Per cercare di capire quale impatto potrebbe avere sul medio e lungo termine l’iniziale interruzione o il ritardo dei percorsi diagnostici, terapeutici e assistenziali, in che modo nei mesi successivi alla prima ondata si sia cercato di far fronte all’emergenza pandemica, ma anche per comprendere come venga assistito oggi un malato di cancro, ci siamo rivolti a Valentina Guarneri, direttrice della scuola di specializzazione in Oncologia medica dell’università di Padova e responsabile dell’Unità operativa semplice dipartimentale Sperimentazioni cliniche di rete dell’Istituto oncologico veneto. “Sicuramente – osserva la docente – è importante riconoscere che all'inizio della pandemia ci siamo trovati in una situazione di emergenza che ci ha portati a dover dare delle priorità alle risorse che, in generale, si potevano allocare per i pazienti. I sistemi sanitari si sono trovati in una condizione di stress, e questo è un punto importante da riconoscere, come è importante riconoscere che tutti ci siamo attenuti ai principi stabiliti dalle maggiori organizzazioni che gestiscono le linee guida per i pazienti oncologici”. Basti citare, per esempio, quelle definite dall’European Society of Medical Oncology o, in Italia, dalle associazioni medico-scientifiche in oncologia.

“In questa cornice di emergenza – continua Guarneri –, gli screening sono stati considerati una priorità bassa, cercando di mantenere le risorse concentrate sui pazienti con diagnosi di cancro attivo, o in trattamento. La conseguenza è stata che, per un periodo di tempo dell'ordine di due, quattro mesi, i principali screening di primo livello, cioè eseguiti nella popolazione asintomatica, dunque mammografia, pap test per il tumore della cervice uterina e sangue occulto fecale, sono stati interrotti”. Si parla mediamente di un ritardo di circa quattro mesi, poi il programma è stato riavviato. Secondo la docente, si è assistito certamente a un mancato numero di diagnosi, ma non bisogna generare allarmismo sulle conseguenze del ridotto numero di pazienti diagnosticati, dato che nella maggior parte dei casi i trattamenti sono adattabili rispetto a una diagnosi eseguita più tardivamente. “Va riconosciuto che c'è stata una battuta d'arresto, ma riuscire a calcolare il reale impatto sull’outcome è un po’ difficile. Tutti i dati che si possiedono sono in realtà delle stime: i dati - calcolati sul periodo che va dalla diagnosi all’outcome - li potremo effettivamente vedere soltanto sul lungo termine, dato che bisogna osservare un periodo di tempo di 10-15 anni, nella maggior parte dei casi. Quindi va certamente riconosciuto il problema, ma rispetto alla stima sulla perdita di chance di guarigione bisogna essere molto più cauti, dal mio punto di vista”. 

Intervista completa a Valentina Guarneri. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Barbara Paknazar

Ciò che è importante ricordare, secondo Guarneri, è che la maggior parte dei tumori viene diagnosticata non tanto attraverso le attività di screening, ma sulla base dei sintomi che il paziente manifesta e che lo inducono a rivolgersi al medico. Lo scorso anno, molti malati hanno ritardato l’accesso in ospedale proprio per il timore di contrarre l’infezione da Sars-CoV-2, o per la difficoltà di recarsi nella struttura ospedaliera da fuori regione. “È importante rassicurare i pazienti, facendo presente che oggi il nostro sistema sanitario è in grado di operare nella maniera più protettiva possibile, i protocolli attuati in qualsiasi ospedale sono estremamente rigidi, i pazienti vengono tutti screenati attraverso il tampone. Inoltre, è partita una campagna massiccia di vaccinazione dei pazienti oncologici in tutta Italia, e il Veneto è stato tra i primi. In questa cornice di progressiva protezione, è fondamentale che il paziente riferisca subito sintomi sospetti e non ritardi l'accesso ai centri o al medico di medicina generale in prima battuta”.

Il cancro è la seconda causa di morte a livello globale, dopo le malattie cardiovascolari: nel 2017 le patologie neoplastiche hanno ucciso circa 10 milioni di persone nel mondo. Nello stesso anno in Italia, secondo quando riportato ne I numeri del cancro in Italia 2020, i tumori hanno causato la morte di 180.085 persone che equivalgono al 27,7% di tutte le 650.614 morti registrate in quell’anno. Ora, secondo Guarneri, è possibile che l’emergenza pandemica dell’ultimo anno incida negativamente sui tassi di mortalità a medio e lungo termine, proprio perché in molti casi i pazienti sono arrivati alla diagnosi in stadio avanzato, e dunque tardivamente ai trattamenti. Molto elevata è stata, inoltre, la mortalità da Covid-19 nei pazienti oncologici e in merito la docente riporta l’esperienza condotta nella Regione Veneto.

Fin dall’inizio della pandemia la Rete Oncologica Veneta ha sviluppato un registro regionale volto a descrivere l'epidemiologia e il decorso clinico dell'infezione da Sars-CoV-2 nei pazienti oncologici e i primi dati, pubblicati recentemente sull’European Journal of Cancer, sono significativi: nella coorte considerata, composta da 170 pazienti arruolati nel corso della prima ondata, il tipo di cancro più comune era il cancro al seno (40 pazienti) e la metà dei pazienti aveva due o più comorbidità. La maggior parte dei pazienti (78%) presentava sintomi correlati a Covid-19. Più del 77% dei pazienti è stato ricoverato in ospedale e il 6% in unità di terapia intensiva. Ebbene, 57 pazienti (33%) sono morti. In 29 casi (17%), la causa della morte è stata direttamente correlata all'infezione da Sars-CoV-2.

Oggi il registro conta circa 700 soggetti, e questo ha consentito al gruppo di ricerca coordinato da Valentina Guarneri di operare un confronto tra le caratteristiche epidemiologiche e il decorso clinico dell’infezione da Sars-CoV-2 nei pazienti oncologici considerati durante la prima e la seconda ondata pandemica. All’Annual Meeting of American Society of Clinical Oncology i ricercatori hanno presentato un’analisi condotta su più di 600 pazienti (attualmente in fase di stesura e pubblicazione). Ebbene, in questo caso è stato possibile rilevare che durante la seconda ondata la mortalità è crollata al 9%, tuttavia la quasi totalità di queste morti era correlata a Covid-19.

 “Se nel corso della prima ondata - spiega la docente - la principale fonte di contagio era il contatto ospedaliero, perché i pazienti magari stazionavano in pronto soccorso e poi venivano ricoverati, il contagio nelle strutture sanitarie si è drammaticamente ridotto nella seconda ondata. In questa fase, infatti, i pazienti non si contagiavano in ospedale, ma in ambiente familiare o in situazioni comunque non legate agli accessi ospedalieri necessari per il trattamento. Per contro, si è osservata anche una drammatica riduzione della severità dell'infezione, dato che i malati manifestavano più spesso sintomi moderati, e l'ospedalizzazione, nonché l'ammissione nell'unità di terapia intensiva, è risultata drammaticamente ridotta”. A differenza di quanto indicavano i dati europei, inoltre, nella casistica considerata non è stato rilevato un impatto negativo del trattamento attivo e della chemioterapia sul decorso dell’infezione da Sars-CoV-2 nel paziente oncologico e questa, sottolinea Guarneri, è una ragione ulteriore per proseguire con le terapie ed evitare i ritardi. 

Oggi, sottolinea l’oncologa, i percorsi diagnostici, terapeutici e assistenziali sono ormai ripresi come nel periodo precedente la pandemia. “Dobbiamo però riconoscere che la situazione sul territorio nazionale è estremamente eterogenea. In Veneto il sistema sanitario regionale ha indicato di mantenere una priorità per le attività dei pazienti oncologici e per le problematiche di tipo ginecologico e ostetrico, prevalentemente. Quindi, rispetto ad altre realtà in cui il personale medico è stato dirottato sul trattamento di pazienti Covid, noi abbiamo continuato a lavorare in maniera assolutamente uguale a prima. Certo, per un periodo di tempo abbiamo seguito meno pazienti, perché la mobilità extra-regione si era praticamente azzerata e molti avevano il timore di recarsi in ospedale”. Ma, osserva la docente, il Veneto è stato probabilmente la Regione in cui gli screening sono stati sospesi per meno tempo. 

La pandemia ci ha fatto capire che in realtà esistono sistemi alternativi per essere vicini al paziente, anche se non si reca direttamente in ospedale. Abbiamo tutti riconvertito parte della nostra attività, cercando di minimizzare gli accessi del malato oncologico in ospedale, anche per non andare a impattare negativamente sulla mobilità che in certi periodi è stata abbastanza complicata”. Così, molte visite sono state condotte attraverso i servizi di telemedicina, sono stati eseguiti teleconsulti, attivati servizi di consegna del farmaco a domicilio. Si è fatto ricorso cioè a modalità di cura e assistenza cui si potrebbe guardare, in realtà, anche quando l’emergenza non lo richiede. Secondo l’oncologa, riuscire a domiciliare le cure del paziente è un valore aggiunto, in un’ottica di razionalizzazione delle risorse che passa attraverso una gestione condivisa del paziente con il medico di medicina generale, attraverso i servizi sul territorio. “È molto importante lavorare cercando di redistribuire le risorse, operando il più possibile in rete, cercando di lasciare i pazienti vicino a casa, garantendo comunque l'appropriatezza delle cure. Per questo (in Veneto, ndr) abbiamo istituito una rete oncologica che cerca di rendere allineati i trattamenti, il più possibile omogenea l'offerta di trattamento, centralizzando esclusivamente quei casi in cui è necessario ricorrere a dei servizi particolari presenti soltanto nei centri più grandi”.

L’oncologa conclude ribadendo l’importanza dei vaccini: bisogna incoraggiare i pazienti a vaccinarsi pur nel dubbio che, in un malato oncologico sottoposto a trattamenti immunosoppressivi, la vaccinazione possa anche non essere del tutto efficace. “Stiamo raccogliendo dati molto incoraggianti sull'immunizzazione, sulla sicurezza del vaccino nei pazienti oncologici. Tutte le linee guida, del resto, raccomandano di vaccinare questi malati, perché un certo grado di protezione è garantito, e perché questo consente un inizio o un proseguimento del percorso oncologico più in sicurezza. Anche un’infezione asintomatica, infatti, potrebbe causare ritardi nel percorso terapeutico”. 

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