Sully è un bel film del 2016, diretto dal grande Clint Eastwood (San Francisco, 1930) e interpretato magnificamente da Tom Hanks (Concord, 1956), entrambi californiani. Racconta una vicenda realmente accaduta dall’altra parte, sulla costa est, a New York.Il comandante ed esperto pilota Chelsey Sully Sullenberger decollò la mattina del 15 gennaio 2009 dall'aeroporto La Guardia (con destinazione Charlotte) e, pochi istanti dopo, impattò contro uno stormo di uccelli (pare stessero migrando dal Canada). Ben presto il velivolo perse l'utilizzo di entrambi i motori. Dopo essersi arrovellato sull’accaduto e sul da farsi, in precario contatto con la torre di controllo, sentito il copilota, con calma e audacia Sullenberger decise di tentare l'ammaraggio sull’Hudson. L’aereo affondò nelle acque gelide del fiume, le 155 persone a bordo si salvarono, il comandante scese per ultimo, nelle settimane successive fu considerato un eroe. Venne posto sotto inchiesta dall'ente aeronautico per non aver seguito il protocollo con grave pericolo per equipaggio e passeggeri; l'assicurazione lo accusò di aver distrutto l'aereo. La commissione d'inchiesta cercò di evidenziare la possibilità di atterrare in aeroporti vicini all'area del guasto, avvalendosi di simulazioni di volo al computer. Sully intervenne e dimostrò che le condizioni su cui si basavano le simulazioni erano imprecise ed errate, oltre che studiate dopo ed elaborate per lungo tempo (quando nella realtà un pilota sotto inedito pericolo ha attimi per prendere decisioni) e che solo il suo azzardato comportamento avrebbe potuto salvare i passeggeri. Riuscì così a essere scagionato e, nel decennio successivo, è divenuto una delle personalità “scientifiche” più accreditate negli Stati Uniti.
In sostanza: quando ci sono drammatiche mortali emergenze, quanti e quali siano gli errori e i ritardi dell’assetto dato delle tecnologie e dei poteri, i comportamenti umani sotto stress di sopravvivenza vanno valutati sulla base di quante vite riescono a salvare. Le simulazioni successive possono tener conto di dati e competenze sul momento non disponibili. Vi sono molti proverbi in tutte le lingue che rendono l’idea. Nel caso diSully lui chiese empiricamente di aggiungere solo quel po’ di tempo in cui si è sconvolti e incerti, si parla con chi sta in terra e con il vicino, nel suo caso quegli attimi considerati (dopo) indispensabili per valutare le alternative (concordarono 35 secondi) e prendere un’univoca decisione pensando a tutte le possibili conseguenze mortali di ciascuna. Pur con l’accorto spirito critico verso la forma narrativa della metaforache condensa in pochissime parole un intero racconto, evocando immagini intense ed emozionanti, possiamo forse prendere la pandemia in corso come un lunghissimo evento imprevisto e drammatico che sottopone per mesi i sistemi decisionali di governanti e cittadini (più o meno democratici e collettivi) a uno stress terribile e fortemente rischioso, rispetto al quale stiamo contando ovunque le vittime e contabilizzando differenti curve di letalità, nel mondo e anche in Italia, con la consapevolezza che c’erano errori e ritardi negli assetti di partenza e ci sono stati errori e ritardi in tutte le umane reazioni. Oggi non siamo alle inchieste istituzionali del dopo-pandemia, continuiamo a esercitare critica e scienza, predisponiamo i dati per accurate ricerche e cerchiamo di sopravvivere. Per ora restiamo in piena emergenza, ci resteremo pure quando alcuni paesi cominceranno a subire meno i contraccolpi della malattia. Non ci sarà alcuna “normalità” futura eguale o almeno analoga alla “normalità” precedente.
Oggi che in circa 180 Stati c’è minimo un individuo umano al quale è stata trasmessa l’infezione di Sars-CoV-2, oggi che a circa quattro miliardi (oltre la metà) dei nostri concittadini sapiens sul pianeta è stato correttamente imposto di stare a casa il più possibile dai poteri di quasi cento Stati per evitare la malattia Covid-19 o almeno rinviare il contagio (e che pochi altri paesi hanno adottato o permesso strategie o tattiche differenti), oggi che curve analoghe di sintomi, contagi, mascherine, tamponi, malattie, quarantene o ospedalizzazioni, ricoveri e intubazioni, decessi stanno descrivendo diacronicamente la realtà sanitaria di quasi tutti gli ecosistemi urbani umani tendiamo ad attribuire l’idea di normalità al prima. Eppure, è “prima” che si sono create le condizioni di quanto è avvenuto, sia nel rapporto fra specie umana ed ecosistemi, sia nelle priorità scelte da noi nelle reciproche relazioni. Fino a tutto il 2019 il pianeta aveva forti gravi diseguaglianze sociali, oppressioni e sfruttamenti di umani su altri umani, inquinamenti e distruzioni di ecosistemi. La normalità precedente non era tutta rose e fiori, sta rendendo diseguale l’effetto della malattia, a esempio, su poveri e ricchi, su residenti in case ampie con giardino o in minuscoli appartamenti sovraffollati, su chi possiede buone liquidità e connessione internet e chi no. Anche in questi giorni abbiamo notizie di furti, truffe, morti sul lavoro, femminicidi, suicidi, speculazioni commerciali e finanziarie illegali (e immorali) per dinamiche che prescindono dalla pandemia, oppure magari la usano. Non tutte le 155 persone dell’aereo di Sullyerano normalmente perbene e perfette. Non tutti adesso stanno dando il meglio di sé, continuano strepiti e polemiche inutili; le critiche per alcune evidenti disfunzioni servono soltanto se non accompagnate da odio cattivo o pura strumentalità o assembramenti propagandistici, tanto più ora. Tutti noi, ovunque nel mondo, possiamo speculare sulla qualità delle precedenti nostre relazioni, lavorare pensare leggere scrivere discutere solidarizzare versare, valutando (criticamente) quella normalità. Può essere utile a ciascun individuo e a ciascuna organizzazione, a prescindere dalla possibilità effettiva (poi) di cambiarle.
Durante questa inedita pandemia non abbiamo “modelli relazionali” da seguire con assoluta certezza. Le autorità scientifiche e governative svedesi non stanno necessariamente sbagliando tutto nel non chiudere tutto. Personalmente credo che quelle italiane abbiano fatto bene a imporci di stare a casa e suggerisco di rispettare rigorosamente le misure stabilite per la nostra convivenza. Peraltro, nei tanti mesi in cui è e sarà in corso questa emergenza critica, verifichiamo che ogni individuo, ogni comunità sociale, ogni aggregazione statuale sono diversi, l’uno dall’altro. L’interazione del virus riguarda ogni singolo della nostra specie, eppure ogni organismo reagisce a suo modo (e in parte muta lo stesso virus): maschi e donne, anziani e giovani non hanno identici effetti e conseguenze, inoltre ogni maschio, femmina, anziano, giovane comunque è in partenza diverso e attiva una propria dinamica durante la pandemia. I sistemi sanitari e sociali (universalistici e costituzionali, come quello italiano) cercano di suggerire le scelte opportune per il maggior numero di nostri connazionali in modo di dilazionare i tempi e affievolire i modi della virulenza. Siamo loro grati e abbiamo verificato come sotto stress gli organismi collettivi e la motivazione comunitaria danno forza e coraggio a molti più singoli individui, instaurano circoli più virtuosi e meno viziosi. Non scordiamolo!
La ripresa delle attività oggi proibite o sconsigliate non potrà che avvenire in modo graduale e parziale, scadenzato nel tempo e diacronico nei luoghi. Certo è che le prossime finanziarie italiane ed europee dovranno vedere molto crescere spese e investimenti per sanità pubblica nazionale, medicina territoriale e ricerca scientifica. Convivremo con l’emergenza per molti prossimi mesi, con il Sar-CoV-2 per il resto della nostra vita e della vita della nostra specie. Qui c’è una differenza sostanziale con Sully: lì un solo individuo, pochi secondi, gli aerei volavano e volano; qui ora tutti e ognuno a suo modo, d’ora in avanti e sotto ogni profilo esistenziale. Sia per chi non salva vite con il proprio encomiabile lavoro, sia per chi resta a casa, cresce e crescerà la dimensione di disagio psichico (specie se si è anziani o si risiede con loro, con neonati, con partner meno affiatati, con disabili non necessariamente minori, con altre malattie), ce se ne comincia a rendere conto. La stessa “economia” funziona comunque durante l’emergenza, pensare al “dopo” come a un’ora x, ovunque e per tutti, in cui si ricomincia come “prima”, è irrealistico e fuorviante. La nostra comunità umana sopravvive e si riproduce evolutivamente. La questione decisiva è il rapporto umano con l’ecosistema, con il territorio sociale nel quale ci si muove (oggi poco), con altri luoghi ove si migra per poco o per tanto (oggi niente). Sarà decisivo anche in futuro, per autocontrollarci e per non diminuire le libertà civili.
In tal senso, il lessico militare ottocentesco e la terminologia di guerra sono ancor più inappropriati. Sia chiaro: fra virus, batteri, vegetali e animali è da sempre in corso una reciproca “corsa agli armamenti” (lo dicono scienziati e biologi evoluzionistici), la stessa “protezione civile” è di derivazione militare (la difesa civile nacque come difesa dei civili in tempo di guerra, poi è stata mutuata un’altra “protezione” per le emergenze in tempo di pace), e però è inutile odiare un virus (come le mosche fastidiose): per impedire che ci faccia danni occorre prevenire la sua natura contagiosa verso di noi, se non circola e migra muore lentamente da solo. La realtà non è dicotomica, il pianeta non si divide per amici o nemici, né fra gli umani né fra tutti i viventi: per vivere abbiamo bisogno dell’evoluzione dei fattori biotici. Non è una “guerra”, piuttosto una sfida per tutti gli umani sapiens (fratelli, cugini, amici). E, poi, non abbiamo considerato momentaneamente inessenziali nemmeno le produzioni delle fabbriche di armi, chi può (come negli Usa) se ne accaparra a eventuale uso personale, ma come si fa?! Una cura e una bonifica delle parole e del linguaggio, dell’approccio relazionale all’ascolto e alla comprensione sarebbero proprio uno sforzo da promuovere, individuale e collettivo. Come si fa non accorgersi che siamo egualmente umani e ognuno leggerissimamente diverso, quanto siamo impenetrati l’uno in ogni altro o altra, frutto di mescolanze e incroci, meticci, potenziali vittime del virus e della malattia (ben oltre la metà ci infetteremo, speriamo solo di qui a qualche anno), eguali e ognuno diverso? Come si fa a non considerare perciò quanto è davvero unica e preziosa la vita di ogni individuo umano? Ogni bollettino nazionale, ogni comparazione internazionale tratta di vite finite, di perdite per chi resta, di tristezza per tutti. Quando governanti annunciano tante ulteriori morti, come scontata matematica, dovrebbero avere un tono diverso!
Molti di noi, proprio quasi tutti credo, consideriamo la morte un evento ineluttabile (più o meno prossimo), doloroso e irreversibile della vita umana. E molti di noi considerano sacra la vita di ogni individuo, immorale e impensabile toglierla a qualcuno. Stanno morendo tanti uomini e donne intorno a noi, talora senza un dignitoso conforto e pure fuori dalle statistiche che non considerano alcune anagrafi comunali (a casa o nelle residenze assistite). Da settimane, Covid-19è la principale causa di morte in molti Stati come in Italia; più dei tumori, più degli infarti e, in alcune zone, più della somma di tutte le altre cause. Sono giorni comunque tristi e dovremmo ancor più essere attenti all’uso delle parole di fronte a una pandemia globale e a un’ecatombe così ampia, che si aggiunge a tante altre cause di morti non provocate da azioni umane, sia direttamente (omicidi, alcol, droghe) che indirettamente (fame, sete, altre malattie, eventi estremi climatici e geomorfologici). Abbiamo imparato a capire che una parte delle seconde sono comunque indotte o favorite o rese scontate da comportamenti umani e sappiamo che di ciò non vi è ancora adeguata consapevolezza e conseguente ripulsa. Ciò riguarda anche i nessi tra sviluppo insostenibile e diffusione del Covid-19. Durante la pandemia accresciamo gli sforzi per la lotta ai cambiamenti climatici antropici globali e la realizzazione degli obiettivi Onu di sviluppo sostenibile (la Cop-26di Glasgow è stata solo rinviata, il prossimo anno ci sarà comunque un allarmante sesto IPCC Report). Nemmeno questo tempo può essere perso, c’è una normalità da non rimpiangere, c’è un futuro un poco poco più comune e solidale da costruire, sotto stress, in contrasto sereno e aperto con tutti gli inquinatori del dibattito.