SOCIETÀ

Cuba, le proteste e la repressione del governo

L’orrore, come spesso accade, si nasconde dietro le quinte. «Ci sono morti, feriti, arrestati e desaparecidos», denuncia su Twitter la blogger cubana, dissidente, Yoani Sanchez. «Non sappiamo con precisione quanti e dove, perché la sospensione di Internet e delle linee telefoniche è generalizzata». Cuba era così domenica scorsa, travolta dalle proteste e sconvolta dalla repressione messa in atto dalla polizia antisommossa, schierata dal governo per placare quest’onda di rabbia montata domenica scorsa e placata (almeno nelle sue forme più evidenti) con la forza nel giro di alcune decine di ore. 

I cubani sono scesi in piazza per disperazione, per la prima volta dopo decenni, perché non sanno più come andare avanti (al grido di “Patria y vida”, una canzone rap anticomunista in contrapposizione con il “Patria o muerte” della rivoluzione castrista). Perché non hanno più denaro, né cibo, né medicine. Perché stanno morendo, schiacciati da una crisi economica senza precedenti, dovuta sicuramente al dilagare del Covid e alla conseguente scomparsa del turismo internazionale, fonte primaria di sopravvivenza sull’isola. Perché il governo resta a guardare, senza riuscire a gestire le emergenze, che siano sanitarie o sociali, con l’energia elettrica che manca sempre più spesso, dodici ore al giorno quando va bene. Ed è stato questo l’innesco che ha acceso la ribellione, assieme alla penuria di generi di prima necessità. L’hanno definita “la revuelta del hambre”, la rivolta della fame. Non è ideologia, almeno non soltanto: ora è necessità. Le file, fuori dai pochi negozi dove ancora si trova qualche provvista, sono interminabili, anche di notte, per conquistare i posti migliori. Per tentare di mangiare qualcosa anche a costo di rischiare d’infettarsi. Perché c’è un limite alla sopportazione.

Manifestare, a Cuba, non si può, è vietato. Soprattutto se l’obiettivo dei dimostranti è il governo, la sua inazione. Ancor più se si lanciano sassi contro le insegne della polizia, che siano divise o macchine poco cambia. Una protesta partita dalla città di San Antonio de los Baños, 26 km a sud-ovest dell’Avana, e poi dilagata un po’ ovunque nell’isola. Migliaia di persone a sfilare, al grido di “libertà” e “abbasso la dittatura”. E il presidente Miguel Díaz-Canel (il primo “non Castro” nominato dal Partito Comunista dopo sessant’anni, peraltro nato nel 1960, quando Fidel era già al potere), ha reagito da par suo: prima chiamando i suoi seguaci, polizia speciale compresa, a reagire contro i manifestanti («L’ordine di combattimento è dato: i rivoluzionari scendano in piazza», ha scandito domenica sera in un discorso in diretta sulla tv nazionale, dopo aver sospeso la diretta della finale dell’Europeo di calcio), poi definendo gli stessi dimostranti «criminali, delinquenti, ma hanno avuto ciò che si meritavano».

Evidentemente meritavano i lacrimogeni, i manganelli, gli spray al peperoncino spruzzati in faccia, i pestaggi, le pallottole, i cani lanciati contro. C’è un morto (confermato anche dai media del regime), un uomo di 36 anni, ucciso alla periferia dell’Avana. Ma le vittime sarebbero molte di più, anche se mancano riprove ufficiali. Il governo ha bloccato internet e le reti telefoniche. Le notizie viaggiano a fatica attraverso canali di fortuna, con il tam tam delle testimonianze, con qualche post sui social, con i messaggi Whatsapp. Il giornale online indipendente 14ymedio, diretto dalla blogger Sanchez, riporta una dichiarazione di José Raúl Gallego, giornalista cubano residente in Messico: «Nei gruppi su Facebook si parla di diverse morti a Batabanó (nel sud dell’isola), persone assassinate a botte dalla polizia (che spesso si muove in borghese, per non farsi riconoscere) per aver tentato di filmare, di documentare la repressione». Altri ancora parlano di colpi di pistola sparati ad altezza d’uomo e di torture. Gli arresti sono migliaia, c’è chi stima cinquemila.

Sempre 14ymedio riporta la testimonianza di un sacerdote all’Avana: «Il governo ha chiuso internet proprio perché non si sappia la verità. Tra domenica e lunedì ci sono stati rapimenti, una repressione brutale. Soltanto a Camagüey (terza città cubana e capoluogo dell’omonima provincia) ho notizia di duemila feriti». Da lunedì mattina le principali città di Cuba sono militarizzate. Il governo cubano ha affidato il pattugliamento ai famigerati “Berretti neri”, il gruppo d’élite delle Forze Armate Rivoluzionarie. L’ha scritto sulla sua pagina Facebook l’attivista Tania Bruguera: «Mi hanno detto da San Antonio che c’è una gigantesca brigata di Berretti neri: picchiano e sparano lacrimogeni, ma la gente non si arrende». Il governo ha tentato perfino di “arruolare” i dipendenti che lavorano nei centri di lavoro statali: premi in denaro per chi esce e picchia i manifestanti: presi per fame. Yoani Sanchez, sulla sua pagina Twitter, ha lanciato il suo appello: «Cubano! Nessuno stipendio, premio o coercizione vale abbastanza per farti diventare un carnefice. Non farlo! Dì di no!»

Ma quel che emerge è solo la punta dell’iceberg. Attivisti cubani hanno diffuso una lista di 115 persone arrestate: tra loro anche José Daniel Ferrer, attivista per i diritti umani, ma anche medici, giornalisti e musicisti. Altri sarebbero stati catturati dalla polizia con la sola accusa di aver difeso i manifestanti. Poi c’è il capitolo degli scomparsi, i desaparecidos, compresi i giornalisti (la blogger Yoani Sanchez denuncia che due cronisti di 14ymedio mancano all’appello). La youtuber Dina Stars è stata arrestata mentre partecipava a una diretta tv del canale spagnolo Cuatro. Per denunciare quanto sta accadendo, è stato aperto su Facebook il gruppo “DESAPARECIDOS #SOSCuba”, che in poche ore è stato invaso da messaggi, da video di denuncia, da appelli disperati, da volti di donne, di uomini, di ragazzi (e anche di molte ragazze) dei quali s’è persa ogni traccia. Parenti e amici li cercano davanti alle caserme della polizia. L’orrore è lì, dietro quei cancelli.

«Tutta colpa degli Stati Uniti»

Il presidente Miguel Diaz-Canel ha dapprima dato la colpa agli Stati Uniti, denunciato una politica “di accanimento contro una piccola isola che aspira solo a difendere la sua indipendenza”: «Sono loro (gli americani) che vogliono provocare disordini sociali. Hanno imposto un embargo ingiusto e crudele, un blocco economico che non è mai stato adottato contro nessun altro Paese. Evidentemente i 60 anni della rivoluzione cubana hanno dato loro molto fastidio». I rapporti Usa-Cuba, storicamente complessi, avevano visto un barlume di luce nel 2016 quando Barack Obama si recò sull’isola per una storica visita, ricevuto da Raul Castro, con tanto di stretta di mano e inno americano che risuonava nel Palazzo della Rivoluzione.  «Ci sarà un cambiamento», predisse il presidente americano, che non aveva calcolato la vittoria di Donald Trump, pochi mesi dopo. Trump impose nuove sanzioni, ancor più severe, ampliate perfino a pochi giorni dalla fine del suo incarico. E finora l’amministrazione Biden non ha mosso un dito per alleviarle (nonostante, in campagna elettorale, avesse promesso l’attivazione di una “commissione per il ripristino dei rapporti con l'Avana”). Il presidente americano ha comunque espresso il suo sostegno ai manifestanti: «Stiamo con il popolo cubano e sosteniamo il suo strenuo appello alla libertà e al sollievo dalla tragica morsa della pandemia, e dai decenni di repressione e sofferenza economica a cui è stato sottoposto dal regime autoritario di Cuba», ha dichiarato Biden in una nota. Invitando poi il presidente cubano e il suo governo a “ascoltare la loro gente e servire i loro bisogni”. Una situazione delicata da un punto di vista diplomatico, al punto che anche la Russia ha ritenuto opportuno intervenire: «Riteniamo inaccettabile qualsiasi interferenza esterna negli affari interni di uno Stato sovrano e qualsiasi azione distruttiva che favorisca la destabilizzazione della situazione sull'isola», si legge in una dichiarazione firmata da Maria Zajárova, portavoce del ministero degli Esteri russo. La Cina, attraverso il suo ministro degli Esteri, ha chiesto agli Stati Uniti la rimozione immediata delle sanzioni. Mentre l’Unione Europea ha condannato gli “inaccettabili arresti” degli attivisti politici e giornalisti a Cuba, chiedendone il rilascio immediato.

Il governo cambia strategia: allentati i dazi in entrata

Mercoledì sera il presidente Miguel Diaz-Canel ha deciso di adottare un cambio di strategia. «Dalle rivolte dobbiamo fare esperienza, dobbiamo anche fare un'analisi critica dei nostri problemi per poter agire e superare, ed evitare che si ripetano», ha dichiarato durante la solita apparizione sulla tv nazionale. Ma dalla (leggera) autocritica è subito tornato ad accusare i manifestanti: «Nelle proteste hanno agito quattro gruppi: oppositori filo statunitensi, criminali che hanno approfittato dei disordini, cittadini sinceramente insoddisfatti delle carenze sopportate in questi mesi e una parte dei giovani che non sono inseriti nel mondo del lavoro». Per poi rimarcare: «La nostra non è una società che genera odio, mentre quelle persone hanno agito con odio».  E come prima misura per allentare la crisi, il presidente ha revocato (temporaneamente) le misure doganali sull’importazione di cibo e medicine, che diventa così gratuita (mentre prima era vincolata a una serie di dazi e di limitazioni) per chi torna da viaggi all’estero.

Ma difficilmente la mossa basterà a placare gli animi: «No, non vogliamo le briciole. Vogliamo la libertà», ha twittato Yoani Sanchez. «Il sangue non è stato versato sulle strade cubane per importare qualche valigia in più. La maggior parte dei feriti o dei detenuti non ha nemmeno qualcuno che porti qualcosa nel bagaglio». La crisi è assai più radicata di come la descrive il governo. E i cubani sono stanchi di sopportare condizioni spesso sotto il limite della sopravvivenza. Con un’economia boccheggiante (che sconta anche l’abolizione dallo scorso gennaio del sistema della doppia valuta), mentre il turismo è crollato dell’80% lo scorso anno. Manca tutto l’indispensabile: il cibo (per la carenza di farina di frumento si produce pane a base di zucca), le medicine (in alcuni ospedali sono finite anche le scorte di aspirine), mentre sono stati segnalati preoccupanti focolai di scabbia. Oltre, naturalmente, ai contagi per coronavirus, che nelle ultime settimane hanno registrato un’incredibile impennata di casi (oltre seimila al giorno).

Internet è stato riattivato mercoledì scorso, ma non l’accesso ai social, come Whatsapp e Facebook. Dalle piazze, inoltre, la protesta si sta spostando in mare (dove l’intervento della polizia è più complesso): molte imbarcazioni sono al largo, entro le 12 miglia, e da lì i manifestanti esprimono la loro protesta contro il regime. Altre invece tentano la traversata, verso la Florida, verso un qualsiasi altrove. Al punto che il segretario alla sicurezza interna americana, Alejandro Mayorkas, ha avvertito i cubani (e gli haitiani, ma questa è un’altra storia) di non tentare di entrare illegalmente negli Stati Uniti: «A qualsiasi migrante intercettato in mare, indipendentemente dalla sua nazionalità, non sarà permesso di entrare negli Stati Uniti», ha ribadito Mayorkas durante una conferenza stampa. La giornalista Miriam Celaya ha scritto in un editoriale su 14ymedio: «Da domenica sento che abitiamo in una città diversa, in un paese diverso. La crosta della paura è stata spezzata e questa è stata trasferita al potere, ai suoi scagnozzi e ai suoi scribi. Sotto la superficie, niente è più normale. Non senti la solita atmosfera, la disinvoltura, l’eterno chiacchiericcio tra i cubani. C'è un senso di ansia in questo silenzio, o meglio, in questo strano non dialogo, così estraneo a noi. Ora il burattino di turno (il presidente Díaz-Canel) ha commesso l'imperdonabile crimine di incitamento alla violenza e si è macchiato le mani di sangue. È un peccato che il cosiddetto presidente abbia perso l’opportunità di dialogare con la gente e guidare insieme l’essenziale processo di cambiamento. Non si poteva immaginare un’ottusità più grande».

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