SCIENZA E RICERCA

La cultura del migrare

Le mandrie dei grandi erbivori africani che compiono lunghissimi tratti nella savana alla ricerca di cibo, le balene grigie che si spostano tra il mare di Bering e il Golfo della California percorrendo anche 20 mila chilometri all’anno, le tartarughe marine che per deporre le uova tornano esattamente nello stesso posto in cui sono nate: quella di migrare è un’abitudine che osserviamo in moltissime specie animali e che ha affascinato gli uomini fin dall’antichità.

La migrazione è un fenomeno caratterizzato da spostamenti stagionali o ciclici degli individui che, guidati da svariati motivi come i cambiamenti climatici, la disponibilità di cibo o la necessità di riprodursi, rispondono ad un’unica grande necessità: quella di sopravvivere. Se per alcuni è in gran parte innato, per altri è un comportamento che si tramanda primariamente di generazione in generazione, secondo un processo di “trasmissione culturale”. Non è, infatti, solo una prerogativa umana quella di avere una cultura: anche negli animali esistono tratti che si tramandano per moltissimi anni, come nel caso della pecore delle montagne rocciose (Ovis canadensis), chiamate comunemente bighorn, protagoniste dello studio pubblicato su Science da un team di ricercatori statunitensi. 

Prima di questo lavoro, altre ricerche avevano ipotizzato che negli ungulati la migrazione fosse socialmente appresa, ma fino a oggi i ricercatori non erano ancora riusciti a dimostrarlo sperimentalmente. Grazie a questo studio si è arrivati alla conclusione che gli individui di questa specie imparano dove e quando migrare dai loro conspecifici e che queste informazioni si trasmettono alle generazioni successive. Un grosso esperimento che ha interessato tutto il west statunitense e che è proseguito per oltre 60 anni, dopo che la caccia e le malattie trasmesse dalle pecore avevano estirpato gran parte delle popolazioni dei bighorn, durante la fine del 19° secolo. Per recuperare le popolazioni perdute, i programmi di conservazione hanno previsto la traslocazione degli individui rimasti nelle aree precedentemente occupate. I ricercatori hanno scoperto così qualcosa di sorprendente: degli animali traslocati solo il 9% migrava.

L’autore dello studio, Brett Jesmer, e il suo team di ricerca hanno analizzato questo fenomeno grazie all’uso dei collari GPS che hanno consentito di tracciare gli spostamenti sia delle popolazioni storiche presenti in quel territorio da più di 200 anni, sia degli individui appena traslocati in un nuovo ambiente. Comparando i risultati è emerso che gli individui “traslocati” non erano propensi a migrare: un fenomeno dovuto probabilmente al fatto che la migrazione richiede agli animali periodi lunghi di esplorazione con il conseguente passaggio di informazioni ad altri membri del branco, compresa la loro prole. Insegnamenti che diventano parte della cultura di quella popolazione, un aspetto molto simile a quello che avviene nelle società umane. 

Un ulteriore aspetto che i ricercatori hanno cercato di approfondire è stato calcolare il tempo necessario a questi animali per imparare a migrare nuovamente. Negli ultimi anni gli ecologisti hanno osservato che gli ungulati migrano secondo un fenomeno denominato “surfing the green waves”: come i surfisti cavalcano le onde, gli ungulati seguono “l’onda” delle giovani piante nutrienti che spuntano a quote sempre più elevate durante la primavera, consentendo di avere un cibo di migliore qualità che li aiuta a sopravvivere e riprodursi. Un processo che secondo i ricercatori sta alla base della migrazione e ne funge da “incipit”.

Prendendo in considerazione oltre che ai bigohorn anche alcune popolazioni di alce (Alces alces), sempre facendo la distinzione tra branchi da poco “traslocati” e “storici”, è emerso che le popolazioni più antiche, avendo acquisito informazioni per generazioni, erano più brave a trovare cibo nutriente (a cavalcare quindi le “green waves”) rispetto agli animali reintrodotti in territori prima di allora sconosciuti. Di conseguenza, gli animali storici erano anche i più predisposti a migrare. Inoltre, i ricercatori hanno stimato che le popolazioni di bighorn reintrodotte sembrano metterci circa 40 anni prima di tornare a migrare, mentre quelle di alce addirittura 90.

Risultati che portano i ricercatori a concludere che la conoscenza dei territori nel tempo per queste specie è fondamentale e, di conseguenza, la trasmissione culturale di questa conoscenza è necessaria affinché le migrazioni possano sorgere e persistere nel tempo. Di fronte a queste conclusioni, la salvaguardia di questi territori diventa fondamentale non solo per tutelare gli habitat da cui queste specie dipendono, ma soprattutto per conservare nel tempo la loro cultura. 

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