CULTURA

Decolonizzare l'architettura: oltre il dominio del cemento armato

“La storia dell’architettura è incompleta”. Questa frase era all’interno di uno dei pannelli iniziali del percorso espositivo della Biennale Architettura del 2023. Sono parole di Lesley Lokko, scrittrice e architetta ghanese, che sottolineavano come “la voce dominante è stata storicamente una voce singolare ed esclusiva, la cui portata e il cui potere ignorano vaste fasce dell’umanità – dal punto di vista finanziario, creativo, concettuale – come se avessimo ascoltato e parlato una sola lingua”. Biennale a parte, una riflessione su questo tema sembra praticamente assente nella discussione internazionale sull’architettura. Lo sostiene nel suo ultimo libro, Addomesticare l’architettura (UTET, 2024), l’antropologo e architetto Franco La Cecla, che nel sottotitolo esprime una posizione ancora più netta e forte: “L’Occidente e la distruzione dell’abitare”.

Il punto di partenza fin dalla prima pagina è che per l’autore l’attuale definizione di cosa sia l’architettura “si è ignorato il novanta per cento di quello che la gente fa quando costruisce e abita”. E quello che manca è ciò che è stato costruito e abitato da culture che non sono occidentali, in luoghi lontani dai centri di irradiamento delle tendenze architettoniche degli ultimi due o tre secoli. Raggiunto al telefono prima di un viaggio verso l’India, Franco La Cecla sottolinea che “manca una qualsiasi forma di storia critica della disciplina, ma è una situazione che non è più tollerabile in un contesto come quello attuale”. La pietra di paragone è il mondo dell’arte, dove uno sguardo ancora legato a una suddivisione del mondo ricalcata sull’epoca coloniale del primo Novecento sarebbe impensabile. “Sorprendentemente”, commenta, “queste questioni non hanno ancora sfiorato l’architettura”.

Manca una qualsiasi forma di storia critica della disciplina: una situazione che non è più tollerabile nel contesto attuale Franco La Cecla

Un esempio dell’immobilità del settore da questo punto di vista sono i premi, come il prestigioso Pritzker, sorta di Nobel per l’architettura. Chi li vince è espressione di questo punto di vista sul mondo, quello delle archistar che impongono sul resto del mondo una visione monolitica del costruire e dell’abitare. “Il dibattito è fermo”, continua La Cecla. Almeno in Italia e in Europa, perché “in Asia c’è una forte critica” sia all’architettura dell’epoca coloniale, sia alle più recenti commesse affidate a professionisti occidentali. Ne è un esempio una recente lettera inviata a Nature da Stefan Huebner, ricercatore alla National University di Singapore, in cui si spendeva a favore delle case galleggianti tipiche di alcune aree del Sudest asiatico. Per Huebner, si tratta di esempi di architettura tradizionale e forme dell’abitare che si sono sviluppate in accordo con le situazioni ambientali dei grandi fiumi. Ma si tratta di costruzioni che soffrono di una “mancanza di accettazione sociale e politica della vita sull’acqua nel mondo occidentale”. Insomma, vengono guardate con il sospetto che non sia il modo “giusto” di vivere, nonostante - sottolinea Huebner stesso - organizzazioni come l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) ne abbiano cominciato a sostenere l’efficacia in determinati contesti di adattamento alla crisi climatica.

 

L’aspetto ecologico

Ma il discorso di Franco La Cecla non si ferma solo sullo sguardo ancora fortemente coloniale che l’architettura occidentale non riesce ad abbandonare. In uno dei capitoli di Addomesticare l’architettura si concentra sugli impatti della produzione del cemento. “Il mondo oggi ne è coperto, devastato”, scrive, sottolineando il ruolo simbolo che ha nel modo di costruire dei grandi architetti occidentali dell’ultimo secolo e mezzo: “domina, monopolizza, distrugge ogni altra risorsa, diventa la copertura del mondo, soffoca la natura”.

 

Il cemento domina, monopolizza, distrugge ogni altra risorsa, diventa la copertura del mondo, soffoca la natura Franco La Cecla

Oltre a cancellare altre modalità costruttive, inoltre, il cemento non fa bene all’ambiente. Racconta La Cecla che una tonnellata di Portland, uno dei tipi di cemento, genera una tonnellata di CO2. Si tratta di emissioni che avvengono durante diverse fasi dei processi produttivi: “il 50 per cento come reazione chimica quando la calce viene bruciata e il 40 per cento come combustibile per alimentare i forni. Il restante 10 per estrazione e trasporto dei materiali”. Nel capitolo, La Cecla sottolinea come i margini per ridurre queste emissioni siano piccoli, al punto che sembra impossibile ridurre la CO2 derivante dalla produzione di cemento Portland al di sotto dei 900 chilogrammi per tonnellata”. Risultato: “le emissioni totali derivanti dalla produzione di cemento sono enormi: le stime variano tra il 5 e il 10 per cento di tutte le emissioni mondiali di CO2”. Anche per questo motivo non guardare solamente a questo materiale per la costruzione degli edifici dovrebbe essere un’indicazione da seguire.

 

Mancanza di un dibattito

Come mai invece tra architetti non si discute di questi temi? Dall’altra parte del telefono la risposta è lapidaria: “il mondo dell’architettura è ignorante e autoreferenziale”. Soprattutto in Italia, dove la categoria soffre di “provincialismo” ed è succube del mito che “l’Italia sia il posto più bello del mondo, la patria del design e dell’architettura”. L’architettura raccontata da La Cecla è composta da persone che “non leggono praticamente niente che non sia inerente al proprio settore”, così non vengono toccati dai grandi cambiamenti culturali che stanno avvenendo.

Che fare? Per La Cecla bisogna “ritornare all’evidenza di che cos’era l’abitare” prima dell’imposizione di un modello unico dal forte sapore coloniale. “L’umanità ha sempre saputo abitare”, racconta, adattandosi alle condizioni climatiche, ambientali e alla disponibilità di materiali locale. Si tratta di una storia, anzi di molte storie, che non sono state registrate come i risultati di famosi architetti passati alla storia. Sono, invece, l’effetto di un’attività praticamente artigianale, modellata non solo sulle risorse, ma anche sulle diverse culture. 

C’è un capitolo del libro in cui l’autore racconta il contrasto degli edifici di vetro e cemento semiabbandonati, quasi privi di segni di vita, tipici di molte città dell’Asia, e di un quartiere di una città indiana in cui si è mantenuta l’architettura tradizionale. Quest’ultimo è pieno di persone intente alle diverse occupazioni, con una vita in comune fatta per lo più all’aperto. Bisogna fuggire dalla tentazione di romanticizzare questa scena, dipingendola come idilliaca e perfetta. Ma La Cecla la guarda sottolineando che la vita sociale fatta all’aperto è una forma di vivere insieme che è molto diffusa in alcune aree del mondo, e lo è stata per molto tempo anche in Italia, ma che più recentemente è stata associata a un modo di vivere la città meno progredito, meno civilizzato. Perché non rispecchia quello che La Cecla chiama “l’ideologia della modernità” che ha progressivamente cancellato quello che non era conforme.

Al telefono c’è tempo per un’ultima questione che mostra, secondo La Cecla, come l’architettura occidentale sia uno strumento di amministrazione del potere. Nei conflitti bellici, una delle prime cose che ha fatto chi attaccava “è stato distruggere la quotidianità della gente” attraverso l’abbattimento fisico degli edifici e delle case. La storia è piena di città rase al suolo per mettere definitivamente in ginocchio il nemico. “Sta succedendo anche a Gaza in questi mesi, dove la maggior parte del costruito è stata abbattuta”, chiosa La Cecla, “perché quella forma di vita quotidiana rappresentava una minaccia al potere”.

 

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