SOCIETÀ

Guerra e dezinformácija: piccola bussola per orientarsi

Il quinto giorno di guerra è finito. Mentre Kiev resiste ancora, l’invasione russa sembra in stallo e le vittime civili dei missili e delle bombe che non stanno piovendo (dice il ministero della Difesa di Mosca) aumentano vertiginosamente, in Italia le panzane da narrazione putiniana imperversano a ogni livello.

1) Prima classificata per le baggianate reperite nel dibattito pubblico: una nazione, un popolo, uno zar.

La manfrina del "ha ragione Putin, ucraini e russi (e bielorussi se è per questo) sono sempre stati una nazione" occupa il primo gradino del podio delle sciocchezze. "Ma l'ha detto anche Barbero" è il suo corollario rafforzativo. Ora, Alessandro Barbero è uno studioso eccellente, un comunicatore brillante (e incidentalmente una persona cordiale). Ma quando lui parla del Rus’ di Kiev lo fa da medievista: ripercorre origini, suggerisce genealogie possibili. Se i vatniki* che normalmente si abbeveravano a Russia Today (ahimè per loro, l’Unione Europea ha deciso di dichiarare guerra anche alla propaganda… non un minuto troppo presto) non fossero gli analfabeti funzionali che sono, potrei suggerire loro la lettura di...diciamo quarant'anni almeno di bibliografia. È dai tempi di B. Anderson (Comunità immaginate) o di E. Hobsbawm (L'invenzione della tradizione) che gli storici contemporaneisti analizzano la nazione per quello che è, un manufatto culturale. Riassumendo rozzamente: la nazione non esiste in natura, non ha uno statuto ontologico. Esistono comunità umane che condividono spazi, a volte idiomi simili e che a volte sostengono di avere un passato comune. Ed esistono stagioni in cui ci si inventa le nazioni come comunità di sangue e destino, con una mitologia fatta normalmente di gloria e battaglie e un futuro di grandezza. Questione lunga, sfuggente e complessa. In Italia abbiamo A. M. Banti che lo racconta in modo eccezionale. Leggete lui. E capirete perché sostenere che ucraini e russi devono stare insieme perché mille e rotti anni fa hanno diviso la culla è una fanfaluca da premio Oscar. Le nazioni sono un plebiscito di tutti i giorni, diceva il buon Ernest Renan in una conferenza alla Sorbona nell’anno di grazia 1882. La citazione è inflazionata e spesso mal compresa, ma serve per orientarsi. Se invece pensate che le nazioni esistano una volta e per sempre, allora suggerirei di invadere domani Canton Ticino, Illiria, Nizza e per buona misura direi anche Famagosta, che gli infededeli ci tolsero nemmeno cinque secoli fa.

2) "Putin è stato messo all'angolo. È colpa della NATO".

Da podio, a pari merito con la precedente. L’antiamericanismo in questo Paese è come il prezzemolo, anche e forse soprattutto nel mondo accademico, dove paradossalmente bisognerebbe imparare a ragionare con la propria testa. Dunque, cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.

L'allargamento a est della NATO è un processo che si concretizza alla fine degli anni Novanta, poco prima che Putin faccia il suo ingresso nella stanza dei bottoni (da cui non si muoverà mai più). Deriva da esigenze in parte di sicurezza tipiche di Paesi appena usciti dalla tutela (chiamiamola così) della vecchia (e appena disciolta) URSS, in parte da pretese identitarie. Dopo il 1991, la corsa a sentirsi occidentali, a ritagliarsi un posto proprio nel nuovo ordine, coinvolge molti. Nel decennio successivo, l'allargamento prosegue a tappe successive, in parte con il tacito consenso della Russia, in parte esattamente come reazione alle sue politiche revisioniste. Ora, invece di gridare all'imperialismo americano, sarebbe magari il caso di chiedersi perché tanti Paesi, ex domini della Grande Madre Russia, (alcuni dei quali attualmente gestiti da leader non molto più amanti della democrazia del Piccolo Padre) nutrano verso Mosca una tale strizza. Non sarà mica che è proprio la Russia, armata fino ai denti e guidata da una dirigenza in vena di ricostruzione dello spazio imperiale, a essere il brutto e cattivo della situazione? Nel dubbio, si può chiedere a baltici e finlandesi: pur di mettersi al sicuro dagli appetiti dell’incomodo vicino, aderirebbero anche alla Triplice Alleanza.

3) "L'Ucraina è un Paese di fascisti e il suo esercito stava compiendo un genocidio nel Donbass".

Punto, set, partita delle fake news.

Alcuni giorni fa si stava discutendo su una mailing list di storici contemporaneisti di una coraggiosa lettera aperta firmata da intellettuali e accademici russi che protestavano contro la guerra scatenata dal loro presidente, l’ennesima dimostrazione di come l’aggressione all’Ucraina sia stata talmente unilaterale, non provocata e clamorosa da non poter essere rivenduta in termini di consenso nemmeno ai russi medesimi. Ci vuole un certo sprezzo del pericolo per dissentire dalle decisioni del Cremlino nella Russia di oggi, eppure succede. Ma, invece di prendere atto di questo coraggio (e forse farsi delle domande), qualcuno ha cominciato a strillare sostenendo che l'invasione era stata certamente provocata dal comportamento "fascistoide" (ha scritto proprio così, eh) di Kiev. Insomma, la banda dei nazisti drogati (per citare le parole del sempre misurato Piccola Padre Putin) venduti all’Occidente (alias, l’impero delle bugie) per mettere nei guai la Grande Madre Russia. Non credo che occorra ricordare, perché è notizia ben pubblica, che Zelens'kyj, il presidente della repubblica di Ucraina, proviene da una famiglia ebraica (questi ebrei nazisti del Don!) e nemmeno che l'inizio della sua avventura al potere è stata caratterizzata dall'essere il candidato filorusso (che infidi e ingrati questi nazisti ebrei). Sarà invece utile menzionare il fatto che la favoletta del genocidio perpetrato da una dirigenza fascista (qualsiasi cosa ciò voglia dire) è stata smentita da tutti i principali studiosi che si siano occupati di stermini e dintorni (e dai principali specialisti di storia della Russia contemporanea). Potete leggere un bell'articolo di Timothy Snyder su "The Atlantic" di qualche giorno fa, o la bella dichiarazione collettiva Statement by Scholars of Genocide, Nazism and World War II: “we strongly reject the Russian government’s cynical abuse of the term genocide, the memory of World War II and the Holocaust, and the equation of the Ukrainian state with the Nazi regime to justify its unprovoked aggression”, hanno dichiarato decine di storici, da Omer Bartov a Cristopher Browning, solo per citarne un paio. Naturalmente, ciò non significa che sull’Ucraina pre-24 febbraio non pesassero ombre anche inquietanti, frutto di una democrazia (e di uno stato di diritto) tutt’altro che perfetti. Che nel Paese una singolarmente attiva marmaglia neonazista (o derivati) agisca (o abbia agito) spesso indisturbata, è un dato innegabile. E l’esistenza del battaglione (oggi Reggimento, per la verità) Azov, una formazione volontaria ora inquadrata nella Guardia nazionale regolare, in cui i militanti della destra radicale non si contano, non depone esattamente a favore dello spirito liberale dei governi di Kiev dal 2014 in avanti e quando gli entusiasmi da mobilitazione per il nemico alle porte si saranno placati, è probabile che queste zone d’ombra peseranno un pochino sul processo di avvicinamento dell’Ucraina alla UE. Ma “fascismo” e “genocidio” sono un’altra questione. D’altra parte, è verosimile che chi ne ciancia non abbia la minima idea di chi sono Omer Bartov e Cristopher Browning.

4) “Comunque noi la guerra non la sappiamo più fare” (anche nelle varianti: “Le guerre non le fa più nessuno” e “Le guerre ora si fanno solo con le macchine e i computer”)

Forse non è ancora del tutto chiaro a chiunque, ma il 24 febbraio potrebbe diventare una data spartiacque, sia per quanto riguarda la natura sostanziale della guerra nel XXI secolo, che per il suo immaginario. Nel 2008 James Sheehan, un apprezzato storico di Stanford noto soprattutto per i suoi lavori sulla Germania, pubblicò un volume, Where have all the soldiers gone?, in cui ripercorreva (non senza un po’ di ironia dell’americano che guarda a un continente decadente) le tappe di quella che definiva la demilitarizzazione culturale del Vecchio Mondo. Molto in sintesi: dopo il trauma del 1945, della devastazione, delle sconfitte e dell’Olocausto, gli europei avevano perso ogni desiderio di avere a che fare con la guerra, non solo come strumento politico ma anche (e soprattutto) come elemento del paesaggio mentale. Niente più “onore e gloria”, niente più «sacrificio per la patria» e basta parate militari come momento apicale della rappresentazione dell’unità nazionale. Il volume di Sheehan era brillante e provocante, ma anche zeppo di errori e di ingenuità, ma la proposta sembrava reggere. In fondo, non era la stessa Europa in cui era nata la coscrizione obbligatoria ad averla appena abolita? “Europeans are from Venus”, titolò il New York Times recensendolo: la guerra, sembrava, non sarebbe più tornata nei pensieri e nelle parole degli spensierati abitanti di Italia, Francia, Germania o Regno Unito.  Purtroppo per Sheehan, e forse anche per tutti noi, gli anni in cui era possibile pensare un volume come quello sembrano molto lontani. Nell’ultimo decennio, gli indizi di un mutamento nel paradigma post-eroico si sono susseguiti: sul piano di una realtà politica dominata dalla crescente minaccia della Russia putiniana, che ha spinto Paesi insospettabili come la Svezia, neutrale dalla fine dell’età moderna, a ristabilire la coscrizione nel 2016, e su quello dell’immaginario, dove questa sensazione di pericolo si è tradotto in un revival dell’agonizzante genere “di guerra”, come soggetto cinematografico ma soprattutto come tema delle serie. Poi, certo, la spinta definitiva l’ha dato il trauma, perché è stato un trauma (e anche un’umiliazione), del 24 febbraio. La Germania vara un piano di riarmo che non si vedeva dai tempi di Bismarck, Ursula von der Leyen parla come se lo spirito di Churchill (mod. 1940) fosse con lei, il governo italiano vara senza batter ciglio (al netto delle ormai irrilevanti posizioni di Matteo Salvini) l’invio di armi e finanziamenti a Kiev. Putin, proprio lui, potrebbe essere ricordato un giorno come il genio che ha archiviato per sempre la favola dell’Europa inerme, discorde, post-eroica e attenta solo ai soldi.   

*vatnik/i: seguace acritico della propaganda putiniana in tv (per estensione, anche sui nuovi media).

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