SOCIETÀ

Disinformazione, fake news, hate speech: il punto e le azioni di prevenzione

Partiamo da quello che sappiamo: i tentativi di smontare notizie false e teorie pseudoscientifiche che circolano sui social network sono inutili, addirittura controproducenti. A rivelarlo, già nel 2017, uno studio sul debunking, condotto analizzando l’attività su Facebook di 54 milioni di utenti nell’arco di cinque anni e pubblicato sulla rivista scientifica Plos One da un team internazionale guidato da Fabiana Zollo, ricercatrice dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, esperta di processi di diffusione e fruizione dell’informazione sulle reti sociali online. Rincorrere le fake news nel tentativo di demolirle risulta faticoso e inefficace, quel che può servire invece è identificare tempestivamente contenuti polarizzanti e individuare i meccanismi capaci di generare la disinformazione, per prevenirla, poterla prevedere e arginarne la diffusione.

Oggi Zollo collabora con l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, è membro della task force Data science di AGCOM e supporta, in qualità di esperta, l’Unità di monitoraggio per il contrasto della diffusione di fake news relative al COVID-19 sul web e sui social network del Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri. L'abbiamo intervistata per aggiornare e approfondire l'argomento esplorando nuovi studi, progetti e azioni di monitoraggio e prevenzione, per capire a che punto sono arrivate le ricerche e le indagini relative alla disinformazione.  

"Molta disinformazione fa leva su dinamiche di polarizzazione - spiega Zollo al Bo Live - Argomenti particolarmente polarizzanti e divisivi attraggono gli utenti. Agire efficacemente quando ormai la disinformazione è in atto e sta girando risulta inutile, e dal punto di vista pratico, nel momento in cui una notizia non veritiera circola, fermarla e correggerla risulta quasi impossibile. Inoltre queste azioni correttive non sembrano funzionare perché non raggiungono chi ne ha davvero bisogno e finiscono con rinforzare invece l'idea di partenza. Si può fare più danno che altro. Partendo da queste considerazioni, abbiamo notato che quando un argomento compare sulle testate giornalistiche si crea una finestra di 24 ore dopo la quale questo può essere ripreso e portato in pagine di disinformazione: 24 ore sono poche, ma è in quella finestra che possiamo agire, lavorando per abbassare la polarizzazione e favorire un dibattito costruttivo tra le parti", attuando strategie di comunicazione ragionata che riescano a ridurre il peso della polarizzazione nelle dinamiche di discussione online. In questo senso si muove Measuring social response to different journalistic techniques on Facebook, studio pubblicato nel 2020 su Nature Humanities and Social Sciences Communications, nato da un progetto di Ca' Foscari in collaborazione con il Corriere della Sera, all'interno del programma Arena della London School of Economics and Political Science. Questa la premessa: "Studi recenti hanno dimostrato che gli utenti online tendono a selezionare le informazioni che aderiscono al loro sistema di credenze, ignorare le informazioni che non lo fanno e unirsi a gruppi che condividono una narrativa comune. Questo ambiente informativo può suscitare "tribalismo" invece di un dibattito informato, soprattutto quando le questioni sono controverse. Soluzioni algoritmiche, iniziative di verifica dei fatti e approcci simili hanno mostrato limiti nell'affrontare questo fenomeno, e il dibattito acceso e la polarizzazione giocano ancora un ruolo fondamentale nelle dinamiche sociali online". Da marzo a dicembre 2018 è stato analizzato il livello di coinvolgimento dei lettori del Corriere su contenuti relativi a un tema controverso e polarizzante come l’immigrazione in Italia. "Volevamo un tema divisivo - spiega - In quel periodo, a progetto appena avviato, quello dell'immigrazione era uno dei temi più caldi dal punto di vista giornalistico e il clima attorno ad esso era particolarmente tossico. Noi abbiamo analizzati i dati, i giornalisti hanno provato a raccontare le notizie con tecniche diverse", per provare a rispondere ad alcune domande: "Quali tipi di giornalismo intensificano la polarizzazione, e quali la riducono? Qual è il modo migliore per far conoscere i fatti? Come possiamo promuovere la partecipazione costruttiva? Ci sono modi per evitare di contribuire alle strategie di comunicazione dei politici anti-establishment che rilasciano di proposito dichiarazioni controverse per dettare la direzione del dibattito nazionale, e poi attaccare i media che li criticano come “nemici del popolo” o spacciatori di “fake news”?" (dal rapporto Journalism in the age of populism e polarisation).

Nel corso del progetto, sono stati esaminati il sentimento prevalente degli articoli postati sulla pagina Facebook del Corriere e i commenti, sono state analizzate metriche sul coinvolgimento rispetto alla quantità e alla percentuale di mi piace, condivisioni e commenti ed è stata fatta un’analisi delle annotazioni degli oltre 20.000 commenti per misurare i livelli di linguaggio tossico, critica della fonte del mezzo d’informazione, ovvero critiche a direttore, giornalista, quotidiano, commenti pro e contro l’immigrazione. Inoltre, aspetto fondamentale, sono stati analizzati i contenuti in base al mezzo, visivo, testuale, multimediale, infografica, alla tecnica, data-driven/fact-checking, editoriale, interesse umano, notizie costruttive, cultura popolare, notizie con contesto e notizie semplici, e al tema, criminalità, crisi dei rifugiati, tensioni etniche, cultura e società. "Con diversi tipi di contenuti e tecniche volevamo osservare le reazioni dei lettori – commenta Zollo - I risultati si sono dimostrati interessanti: non siamo riusciti ad abbattere la polarizzazione, però abbiamo cercato di ragionare sulle strategie per rendere più civile e costruttivo il dibattito tra le parti”. E sulle reazioni ai contenuti aggiunge: “Le storie personali dei migranti, proposte dai giornalisti per creare empatia, hanno ottenuto l’effetto opposto, ovvero reazioni negative da parte del lettore: noi pensiamo siano state interpretate come un tentativo di manipolazione, di fare leva sull'emozione per spostare le posizioni. Gli editoriali hanno registrato una certa resistenza, i contenuti con dati e numeri sono stati attaccati fortemente, mettendo in discussione la fonte e la scelta dei dati da comunicare; i report imparziali con utilizzo di contenuti multimediali/video a supporto sono stati, invece, meno contestati, forse perché è difficile attaccare una fonte quando si ha una prova visiva. In ogni caso, abbiamo notato che cambiando il modo di comunicare cambia la reazione del lettore, ed è stato interessante. I risultati, pur essendo limitati al caso del Corriere, hanno fornito spunti sorprendenti, anche agli stessi giornalisti".

Invece di "combattere la disinformazione", bisognerebbe "migliorare la qualità di informazione nel sistema". Zollo non ha dubbi. "Questo è il il principio alla base anche di QUEST", progetto che definisce, misura e sostiene la qualità nella comunicazione scientifica, sviluppando strumenti e linee guida per migliorare l'efficacia del dialogo tra la scienza e il pubblico in generale, per esempio sui social, fornendo raccomandazioni e indicazioni per comunicatori e professionisti che lavorano nel giornalismo, nei social media e nei musei. 

Dalla pagina di QUEST, ecco anche un approfondimento sul Giornalismo nell'era delle pandemie: come possono i giornalisti rendere più efficaci i loro reportage sulle crisi sanitarie? Cosa possono fare le redazioni per prepararsi a future emergenze? 

Infine, parliamo di monitoraggio dell'incitamento all'odio, sempre in un'ottica di studio e prevenzione. "Nel 2020 abbiamo avviato un nuovo progetto europeo interamente dedicato al hate speech: Innovative Monitoring Systems and Prevention Policies of Online Hate Speech - continua Zollo -. Già dal progetto con il Corriere ci siamo accorti che alcune reazioni negative innescavano anche commenti tossici, qualcosa di estremamente aggressivo nei confronti di un altro interlocutore, per il quale si tenderebbe ad abbandonare una conversazione. Quello che ora stiamo cercando di fare è sviluppare sistemi di identificazione automatica di hate speech, ma tenendo in considerazione diversi livelli: il linguaggio violento, quello offensivo o quello inappropriato, che non favorisce una comunicazione sana. Siamo ancora nella prima fase del progetto e stiamo cercando di capire se esista un legame tra disinformazione e hate speech, una relazione tra questi due fenomeniStiamo inoltre lavorando per caratterizzare i trend degli hate speech e le dinamiche che lo coinvolgono. I risultati sono preliminari, ma già ci dicono qualcosa, per esempio che non sembrano esserci ‘odiatori seriali’, utenti che usano sempre un linguaggio violento, ma ci sono utenti con uno storico da cui emergono talvolta commenti inappropriati. Sembra essere un fenomeno più diffuso (e meno prevedibile, ndr): non c’è una nicchia di odiatori, ma ci sono utenti normali che reagiscono in determinati momenti e contesti. In questo senso vogliamo lavorare anche per individuare ciò che può scatenare una determinata reazione, con lo scopo finale di riuscire a produrre delle raccomandazioni per i regolatori europei". 

Come membro della task force Data science di AGCOM e in qualità di esperta per l’Unità di monitoraggio per il contrasto della diffusione di fake news relative al COVID-19 sul web e sui social network istituita del Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Zollo conclude con una considerazione sul controllo dell'infodemia: "Con Data science AGCOM abbiamo analizzato i dati della comunicazioni su Covid-19 sui social e, in sintesi, possiamo dire che la disinformazione non supera mai la soglia del 5% dell'informazione totale su Instagram, Facebook e Twitter". 

Questa la piattaforma attivata dalla task force di AGCOM, sul tema della disinformazione online durante l'emergenza Covid-19, con risultati preliminari delle ricerche in continuo aggiornamento

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