CULTURA

Dono o condanna? Il mito dell’immortalità tra sensibilità antiche e moderne

– Non esser mai! non esser mai! più nulla,
ma meno morte, che non esser più! –

Da L’ultimo viaggio di Giovanni Pascoli in “Poemi conviviali”, 1904

Così Giovanni Pascoli ha dato voce a una Calipso disperata che tiene tra le braccia il corpo di Ulisse, il grande eroe di Itaca che lei aveva lasciato al mare giovane e forte e che ora le onde le hanno riportato vecchio e stanco. La dea si strugge e non riesce a sopportare l’idea che l’uomo a cui lei aveva offerto il dono più prezioso che poteva immaginare, l’immortalità, avesse rifiutato. Calipso, infatti, non può concepire la scelta di preferire la morte alla vita eterna. Piuttosto che la morte, il ritorno al nulla, sarebbe preferibile non nascere proprio. Meglio non esistere, che esistere e poi, un giorno, tutto ad un tratto, non esser più.

L’ultimo viaggio è uno tra i più memorabili dei Poemi conviviali in cui Pascoli sceglie il mito greco come l'ambientazione in cui calare una sensibilità moderna e proporre delle riflessioni sulla vita e sulla morte che, di fatto, trascendono ogni epoca, compresa la nostra. Pensiamo, ad esempio, alla decisione del visionario fondatore di Amazon, Jeff Bezos, che ha annunciato di aver investito 3 miliardi di dollari nella scienza dell’immortalità.

Il desiderio proibito della vita eterna, che da secoli affascina e spaventa gli esseri umani, trova espressione nei miti più antichi, come quello ripreso da Pascoli, e anche in quelli moderni, spesso rappresentati sul grande schermo. Ebbene, questo dono, una volta ottenuto, nella maggior parte dei casi si trasforma in una condanna, perché va ripagato a caro prezzo. Possiamo provare a immaginare come si comporterebbe Bezos, le cui passioni non comprendono solo la ricerca della vita eterna, ma anche i viaggi spaziali, se la dea Calipso offrisse a lui la vita eterna, proprio come l’aveva offerta a un altro incallito esploratore dell’ignoto. Cosa risponderebbe il multimilionario statunitense se i termini dell’accordo fossero gli stessi che erano stati proposti all’eroe di Itaca, e che costui aveva rifiutato? Perché, ricordiamolo, se Ulisse avesse accettato l’immortalità, sarebbe dovuto restare per sempre sull’isola di Ogigia e rinunciare non solo al suo ritorno a casa, ma a tutte le sue avventure e, in altre parole, a diventare un eroe. L’immortalità, per lui, avrebbe significato non vivere.

“Dea possente, non ti adirare per questo con me: lo so
Bene anche io, che la saggia Penelope
A vederla è inferiore a te per beltà e statura:
lei infatti è mortale, e tu immortale e senza vecchiaia.
Ma anche così desidero e voglio ogni giorno
Giungere a casa e vedere il dì del ritorno.
E se un dio mi fa naufragare sul mare scuro come vino,
saprò sopportare, perché ho un animo paziente nel petto:
sventure ne ho tante patite e tante sofferte
tra le onde ed in guerra: sia con esse anche questa”.

(Odissea, libro V, vv. 215-224)

Nel mito greco, in effetti, non sono pochi i personaggi che hanno avuto l’occasione di oltrepassare i limiti imposti dalla morte e per i quali le cose non sono finite nel migliore dei modi: pensiamo ad esempio a Orfeo, che credeva di poter beffare la morte e riportare in vita la sua amata Euridice, ma è stato tradito dalla sua stessa impazienza, oppure a Chirone e Prometeo: l’uno che cede il dono dell’immortalità e l’altro che vorrebbe non averlo mai ricevuto.


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Se dovessimo diventare immortali, ci troveremmo a ridiscutere tutta l’esistenza umana, il cui senso sembra nascondersi proprio nei suoi limiti. È questo il paradosso sollevato da Jorge Luis Borges ne L’immortale, il primo dei testi che compone L’Aleph, una delle raccolte di racconti più celebri dello scrittore argentino.

La Città degli immortali, regno idilliaco di cui il protagonista del racconto, Marco Flaminio Rufo, va alla disperata ricerca, si rivela essere il luogo dove ognuno è tutti e, quindi, tutti sono nessuno. È un posto in cui tutti gli obiettivi umani perdono di senso, così come i traguardi raggiunti, la solidarietà, le soddisfazioni e i desideri.

Infatti, le persone che vivono nella Città degli immortali hanno a disposizione un tempo infinito, ed è quindi impossibile che non capiti loro, almeno una volta, di comporre, anche se per caso, l’Odissea (suggestione che non può non riportare alla memoria degli appassionati di Borges La biblioteca di Babele, forse il racconto più celebre tra quelli della raccolta Finzioni). E qui che la scoperta dell’immortalità ci mette di fronte al baratro del non-limite e di quell’infinità di possibilità che diventano tutto a un tratto reali e, di conseguenza, prive di senso.

Eppure, riflette Marco Flaminio Rufo, finché esisterà l’ossessione dell’immortalità, che probabilmente è impossibile da scardinare dai cuori e dai pensieri degli esseri umani, nessuno potrà dirsi veramente felice.

Questa Città (pensai) è così orribile che il suo solo esistere e perdurare, sia pure al centro di un deserto segreto, contamina il passato e il futuro e in qualche modo coinvolge gli astri. Finché durerà, nessuno al mondo potrà essere prode o felice Jorge Luis Borges, “L’immortale”

Anche il protagonista di Borges finisce per rimpiangere la sua condizione umana e decide di intraprendere una nuova ricerca, quella del fiume le cui acque gli restituiranno la sua natura mortale e, di conseguenza, il senso della sua esistenza.

Possiamo chiederci, in conclusione, perché, nella maggior parte dei casi, i più grandi pensatori e letterati di tutte le epoche che hanno speculato sul mito dell’immortalità hanno immaginato un finale catastrofico. Crediamo davvero che l’immortalità si rivelerebbe più una condanna che un dono? Oppure temiamo che, a causa della nostra natura finita, non saremmo in grado di gestire l’infinito? E se, invece, stessimo cercando una sorta di consolazione, un modo per esorcizzare il fascino dell’immortalità e rendere più sopportabile la nostra condizione mortale?

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