SOCIETÀ

Emergenza cinghiali, Semenzato: “Necessario un approccio scientifico”

Fecondi e prolifici, in grado di adattarsi ad ambienti e contesti ecologici diversi, dall’elevata mobilità e con comportamenti gregari: questi sono i tratti distintivi del cinghiale (Sus scrofa), specie selvatica tipica dei territori naturali italiani ma in riferimento alla quale, negli ultimi anni, si parla di una vera e propria emergenza.

In Italia, le popolazioni di questo ungulato stanno effettivamente crescendo a dismisura. A causa di difficoltà tecniche, organizzative ed economiche è pressoché impossibile effettuare un censimento puntuale ed esteso a livello nazionale (come quello effettuato per altre specie selvatiche di interesse nazionale, come il lupo); tuttavia, le stime esistenti restituiscono un quadro che, seppur a grandi linee, consente di comprendere le dimensioni della questione. Secondo i dati più recenti rilasciati da ISPRA, la popolazione nazionale di cinghiali è passata da circa 500.000 individui nel 2010 a più di un milione nel 2020; l’associazione Coldiretti, nel 2022, ha stimato il totale dei cinghiali italiani in addirittura 2,3 milioni.

L'intervista completa a Renato Semenzato. Servizio di Sofia Belardinelli, montaggio di Barbara Paknazar

Convivenza difficile

Numeri impressionanti che sono stati raggiunti per via del concorrere di diversi fattori, come spiega Renato Semenzato, biologo e vice-direttore del master in Gestione della fauna selvatica dell’università di Padova: «L’esplosione delle popolazioni di cinghiali che osserviamo in Italia è certamente dovuta, almeno in parte, a fattori socioeconomici: in particolare, l’abbandono di molte aree della parte settentrionale dell’Appennino e delle Alpi, fenomeno che ha determinato un aumento della superficie boscata di circa 3 milioni di ettari. L’aumento del bosco è stato la chiave di volta per l’esplosione di queste popolazioni».

A questo fattore primario si aggiungono, poi, la mancanza di grandi predatori – le popolazioni di lupo sono in crescita, ma il loro numero non è ancora sufficiente per permettere un bilanciamento ecologico tra predatori e prede – e, non ultimo, il mutamento delle pratiche agricole umane verificatosi negli ultimi decenni. Come spiega ancora Semenzato, «il cinghiale è una specie molto flessibile dal punto di vista ecologico, che ha avuto un enorme successo anche grazie a un’agricoltura sempre più produttiva da cui ha potuto trarre beneficio; questo fenomeno che si è verificato non solo in Italia, ma a livello europeo».

I danni causati da queste interazioni indesiderate tra cinghiali e umani sono quantificabili in decine, centinaia di milioni di euro: «È perciò necessario – afferma l’esperto – trovare dei modi per ridurre i tassi di crescita di questi suidi».

Rispondere alla crisi: la biologia della conservazione

«Nata negli Stati Uniti negli anni ’70 del Novecento, la biologia della conservazione, anche conosciuta come “disciplina di crisi”, si occupa di affrontare le situazioni di emergenza attuando un approccio scientifico. L’applicazione pratica di questa disciplina è la gestione», illustra Semenzato.

Nel caso del cinghiale, che è da sempre una specie cacciata in Italia, le strategie per la gestione e il contenimento della popolazione sono principalmente due: l’attività venatoria e l’attività di controllo. «Questo, tuttavia, è causa di attriti per quanto riguarda la gestione di queste popolazioni», prosegue Semenzato; «è perciò necessario fare in modo che la scienza faccia da tramite tra l’esigenza di controllo delle popolazioni di Sus scrofa e le associazioni ambientaliste, che tendono ad essere molto critiche nei confronti di questo tipo di approccio».

 Come sottolineato da Paola Peresin, docente del master PRIMA, nel corso di un intervento tenuto nell’ambito del seminario “Gestione del cinghiale”, «‘gestione’ non è sinonimo di ‘protezione’. La IUCN, ad esempio, considera la caccia come parte delle strategie di conservazione, o meglio delle strategie di gestione faunistica, che potremmo definire come il ‘braccio operativo’ della conservazione stessa». Nel caso dei cinghiali – specie non considerata a rischio e, dunque, non protetta – l’obiettivo principale a cui tendere deve essere una convivenza con l’uomo pacifica e sostenibile per entrambe le parti.

È per questo che l’approccio scientifico richiamato da Renato Semenzato si rivela essenziale per delineare corrette politiche di gestione: la contrapposizione ideologica tra mondo agricolo e venatorio e posizioni ambientaliste impedisce di raggiungere soluzioni ottimali e supportate da solide basi scientifiche.

In una prospettiva di gestione, dunque, la caccia non è la soluzione ottimale, come hanno messo in luce sia Paola Peresin durante il convegno, sia Renato Semenzato ai microfoni de Il Bo Live. Quest’ultimo, in particolare, sostiene che «se, fino al secolo scorso, il controllo della popolazione poteva essere garantito grazie alla sola attività venatoria, i numeri e i tassi riproduttivi che osserviamo oggi ci impongono di ricorrere anche ad altri strumenti di gestione».

La caccia: unica soluzione?

«Da un punto di vista giuridico e amministrativo – continua Semenzato – la caccia va considerata un’attività ludica; i cacciatori sono in netta diminuzione (ad oggi, in Italia, ve ne sono meno di 600.000) e con un’età media sempre più alta, per quasi la metà delle persone superiore ai 60 anni. Per questo motivo l’attività venatoria ha un impatto ridotto sulle popolazioni di cinghiali, ed è necessario affidarsi ad altri metodi di gestione. Tra questi vi è, ad esempio, la cattura: esistono oggi metodi e strumenti che permettono di catturare decine di animali in simultanea. Anche questa tecnica va però gestita.

Ci troviamo ad affrontare una situazione di particolare difficoltà: abbiamo territori boscati molto ampi e continui, la cui gestione è complicata da un punto di vista tecnico e amministrativo. L’unico approccio possibile è, dunque, quello di carattere scientifico: non si può fare affidamento sulle opinioni personali, è necessario piuttosto avere dati scientifici robusti per capire come agire in maniera operativa. L’approccio deve essere oggettivo».

Una delle differenze principali tra attività di caccia e attività di controllo è l’obiettivo che esse perseguono: mentre il cacciatore agisce per scopi ricreativi, il controllore mira a tenere sotto controllo, appunto, l’aumento delle popolazioni naturali. Ecco perché abbattimenti e catture effettuati ai fini del controllo devono seguire dei parametri ben precisi, individuati in base ai dati scientifici resi disponibili da studi biologici ed ecologici.

«Nelle attività di controllo sul cinghiale, si dovrebbe intervenire su una parte specifica della popolazione naturale, quella composta dagli individui che hanno circa un anno di età», specifica Semenzato. «Questi animali, infatti, tendono – soprattutto grazie a condizioni climatiche sempre più favorevoli – a raggiungere un peso-soglia (circa 28-30 kg), superato il quale sono in grado di riprodursi. Si verifica dunque una situazione in cui vi è un elevato numero di animali molto giovani che si riproducono con un elevato successo riproduttivo, e ciò determina un ulteriore incremento del successo riproduttivo della popolazione, addirittura del 25%. Il principale errore da evitare, in un regime di controllo, è ringiovanire le popolazioni: al contrario, dovremmo avere, nel tempo, popolazioni sempre più mature, non – come accade oggi – popolazioni molto giovani, avvantaggiate dal fatto che le attività di caccia tendono a salvaguardare proprio individui giovani e femmine».

Diversi fronti aperti

Le difficoltà di convivenza con il cinghiale si esplicano in diversi ambiti: quello economico, ad esempio, ma anche quello sanitario. Lasciando da parte per un attimo il settore agricolo, che subisce perdite altissime a causa delle incursioni dei suidi nei campi coltivati e nei pascoli destinati all’allevamento, un altro settore che sta subendo gravi perdite a causa delle difficoltà di gestione dei cinghiali è quello dell’allevamento di maiali, piagato dal diffondersi della peste suina africana. In questo caso, dimensione economica e sanitaria sono chiaramente collegate: il virus si diffonde negli allevamenti di maiali domestici in seguito al contatto diretto tra questi e i loro ‘cugini’ selvatici, determinando alti tassi di mortalità e, di conseguenza, ingenti perdite economiche.

Ridurre le popolazioni naturali di cinghiale è perciò un’azione essenziale per alleviare la pressione sulle attività umane, ma anche per scongiurare fenomeni dai risvolti complessi, come la possibile diffusione di zoonosi e l’eventualità di casi di ibridazione tra popolazioni selvatiche e domestiche. «Si tratta di una specie dalla biologia molto complessa – conclude Semenzato –, in cui tutti gli aspetti biologici hanno anche implicazioni socioeconomiche. Tale complessità deve necessariamente essere gestita con un approccio scientifico».

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