Bruno Spatuzzi/Wikimedia Commons
Un articolo divulgativo pubblicato a luglio 2024 sulla rivista scientifica Science poneva, già nel titolo, una domanda importante e di difficile risposta: “La riabilitazione degli animali selvatici funziona davvero?”.
La questione, complessa e sfaccettata, nasce da un tema più ampio: la (spesso difficile) coesistenza tra noi umani e le moltissime specie animali che popolano sia gli ambienti naturali, sempre più ridotti e frammentati, che gli ambienti antropizzati. Le specie selvatiche – termine con cui intendiamo tutte le specie viventi tranne la nostra e i pochi animali che abbiamo addomesticato negli ultimi 12.000 anni – devono infatti fare i conti con il rapido cambiamento del loro ambiente naturale. Questo cambiamento è causato dalle attività umane, che hanno trasformato quasi tutte le terre emerse abitabili del pianeta. Per indicare questa difficile convivenza esiste un termine specifico anche nella letteratura scientifica, con una connotazione prevalentemente negativa: human-wildlife conflict.
Questo concetto descrive la natura della maggior parte degli incontri, quasi sempre involontari, tra animali selvatici e umani: incontri conflittuali, in cui una delle due parti (solitamente, quella non umana) rischia di riportare danni o soccombere. I danni riportati dagli animali sono di varia origine e natura: incidenti stradali, avvelenamenti, trappole dei bracconieri sono alcune delle ragioni più comuni che mettono a rischio la vita di molti animali selvatici.
Per limitare i danni di questa coesistenza, da molto tempo individui e associazioni si occupano di recuperare e curare la fauna selvatica in difficoltà. In Italia, i primi CRAS (Centro Recupero Animali Selvatici) risalgono agli anni Sessanta: a lungo hanno agito a titolo privato, e una sistematizzazione di queste realtà è arrivata nel 1992 con la legge 157/1992, che demandava alle Regioni e alle Province autonome la responsabilità della gestione della fauna selvatica – riconosciuta come «patrimonio indisponibile dello Stato» e dunque «tutelata nell’interesse della comunità nazionale ed internazionale» – e dell’attività venatoria.
I CRAS colmano, da un certo punto di vista, un vuoto istituzionale: svolgono un ruolo fondamentale per la conservazione degli animali selvatici, operando sul territorio e, in molti casi, agendo secondo un’etica che pone al primo posto il benessere di ogni individuo non umano che necessiti di cure, pur nel rispetto della sua natura ‘selvatica’.
Possiamo provare a rispondere alla domanda posta dall’articolo di Science osservando quel che avviene nel territorio italiano. Ci siamo rivolti a un CRAS storico della Penisola: il CRASE Monte Adone (oggi associazione Centro tutela e ricerca fauna esotica e selvatica – Monte Adone), che si trova a Sasso Marconi, in provincia di Bologna.
Nel 2024 Elisa Berti, direttrice del Centro, ha pubblicato, per Sonzogno, il libro Come il respiro del vento. Una storia vera, che ripercorre la storia più che trentennale del Centro e raccoglie alcune delle storie di recupero e tutela più toccanti, impegnative e insolite condotte in questi decenni dalla famiglia Berti e dai volontari.
Da questi racconti traspare una risposta chiara alla domanda se la riabilitazione “funzioni davvero”: per il CRASE Monte Adone, il valore principale è la tutela del benessere, la restituzione della dignità e, se possibile, della libertà a ogni singolo animale. In questa visione, il ‘successo’ a lungo termine del reinserimento dell’animale in natura rimane un elemento secondario.
Una delle storie narrate nel libro è esemplare in tal senso: si tratta della storia di “Nonno Lupo”, un lupo anziano portato al Centro in condizioni di salute pessime, ma che non rendono impossibile la guarigione. Dopo alcune settimane di cure, il lupo “comincia a dare segni di mal sopportare la nostra vicinanza”, scrive Berti: segno che è pronto a tornare in libertà. Per settimane dopo il rilascio, il monitoraggio con il radiocollare mostra quanto “Nonno Lupo” si muova nel proprio territorio, sopravvivendo senza problemi nonostante i problemi di salute tipici della vecchiaia. A un certo punto, però, il radiocollare manda un segnale diverso: il lupo è morto, in modo naturale, proprio in una zona vicina al Centro dove era stato accolto e curato. Elisa Berti va a recuperarne il corpo: “Lo osservo, in silenzio, e ho una conferma potentissima del valore che ha per loro morire liberi. […] Penso che la cosa più rispettosa per un lupo sia permettergli di morire da lupo: è così per qualsiasi altro animale. Non dobbiamo lasciare che si spengano in una vita che non è la loro”.
Leoni appenninici
Tra i vari casi di recupero descritti da Berti vi sono quelli che hanno per protagonisti i leoni. Salta immediatamente agli occhi l’anomalia della presenza di leoni in un Paese alla nostra latitudine. Ancor più strano è che molti dei leoni salvati dal Centro di Monte Adone non provenissero dai circhi o da realtà simili, ma fossero in gran parte detenuti da privati che li utilizzavano, da cuccioli, come “esca” per scattare foto ricordo ai turisti in vacanza sulla costa adriatica. A fine stagione o quando gli animali si facevano troppo grossi per tenerli in casa, però, cercavano di disfarsene. Un approccio così utilitaristico fino a poco tempo fa era piuttosto comune, nel nostro Paese e in Europa. Tant’è che il numero di leoni salvati dal Centro, nonostante l’Italia avesse nel frattempo aderito alla CITES (Convenzione di Washington sul commercio internazionale delle specie di fauna e flora selvatiche minacciate di estinzione), è davvero alto.
La necessità di gestire animali esotici e minacciati come i leoni in un ambiente lontanissimo dalla loro zona geografica di origine svela una realtà molto dura, che mette in luce le limitazioni degli sforzi di conservazione della biodiversità in loco: una delle ragioni per cui si recuperano ancora così tanti leoni nei Paesi del Nord del mondo è che il turismo e il volontariato provenienti dalla parte ricca del pianeta alimentano un business fondato sul desiderio di turisti e volontari, alla ricerca di esperienze avventurose, di avere un contatto diretto con cuccioli di specie selvatiche famose. La soddisfazione di questo desiderio esotico spinge i bracconieri a rubare i cuccioli alle loro madri per usarli come attrazioni naturalistiche. “Il destino di migliaia di felini allevati nei finti santuari sudafricani, abituati all’uomo, è quello di essere venduti alle riserve private per poi essere uccisi durante la cosiddetta canned hunt […]: ricchi turisti da tutto il mondo pagano per poter sparare al leone e portarsi a casa il trofeo”.
Una cattività obbligata
Al Centro di Monte Adone, spiega Berti nel libro, non ci sono solo leoni: diverse specie hanno trovato lì una dimora stabile, e le ragioni sono spesso simili. In molti casi, ad esempio, un individuo nato in cattività o sottratto prematuramente alle cure parentali non ha più alcuna possibilità di imparare a vivere come un membro della sua specie e a procacciarsi da vivere in natura: la vicinanza con l’uomo lo rende confidente nei confronti di quest’ultimo e, spesso, incompatibile con i propri simili o con la vita selvatica. È il caso di molti primati sottratti a laboratori nei quali venivano sottoposti a diverse forme di test, o di diversi volatili (come i pappagalli Ara ararauna) che non hanno alcuna probabilità di tornare alla vita selvatica.
Vi sono poi casi in cui la motivazione per cui l’individuo non viene rilasciato in natura è la sua origine geografica: molti animali selvatici che arrivano al Centro sono esotici e, se rilasciati, potrebbero causare danni ecologici anche gravi. È il caso del procione Lucio, sottratto a una donna che lo teneva in casa come animale di compagnia. Per quanto l’animale si fosse abituato a quella strana simbiosi interspecie, si trattava di una situazione problematica sotto diversi aspetti, non ultimo quello sanitario: non solo il procione è una specie esotica invasiva, ma è portatore di un parassita potenzialmente mortale per l’essere umano. Per questo è stato sequestrato alla sua proprietaria e inserito nella colonia di procioni del Monte Adone. Al di là delle considerazioni legali ed ecologiche, bisogna tenere conto dei reali bisogni di questi individui: “Lucio conosceva solo le persone, ma guardare la sua reazione al nuovo ambiente e vederlo sereno, giocoso e con la possibilità di esprimere i propri comportamenti naturali e sociali è stato per noi il traguardo più grande”.
Superare l’ostilità con la conoscenza
Molti degli interventi dei volontari del CRASE Monte Adone consistono nel tentativo di liberare animali rimasti incastrati in trappole di vario genere: laccioli d’acciaio che lacerano le carni, tagliole, recinzioni, bocconi avvelenati o residui di incontri indesiderati con armi da fuoco. Sembra un ritorno al medioevo, come considera amaramente Berti: “Fin dalla notte dei tempi i carnivori, dagli orsi ai lupi, dalle volpi ai rapaci, sono stati considerati nemici dell’uomo. Invece di pensare a forme di convivenza, ancora oggi c’è chi trova rassicurazione (e spesso anche piacere) nel negare l’esistenza ad altri esseri viventi, che in qualche modo minaccerebbero la sua, di esistenza”. In Italia, questa lotta senza quartiere – e assolutamente illegale – alla fauna selvatica è in rapido aumento. Prendendo il Centro tutela fauna Monte Adone come ‘termometro’ di questo fenomeno, emergono numeri impressionanti: dei cento lupi recuperati e curati dal 1989 ad oggi, ben 53 sono stati recuperati solo dal 2020, e più del 40% è reduce da un attacco di bracconaggio.
Il tema è complesso: le popolazioni di lupo, così come quelle di orso, sono tornate ad aumentare nelle foreste del Paese dopo decenni, se non secoli, di assenza. Questa distanza fisica ha fatto dimenticare alle persone le regole di base di una coesistenza pacifica: i carnivori non sono un rischio di per sé, ma possono diventarlo se la convivenza non è gestita in modo adeguato. Il bracconaggio è un fenomeno in crescita e le sue conseguenze non riguardano solo i singoli individui colpiti, ma si ripercuotono sull’intero ecosistema.
Una coesistenza pacifica con la fauna selvatica è ancora un’utopia, più che una realtà. Ed è così per diverse ragioni, tra cui la mancanza di un’educazione adeguata e di un’informazione capillare su questi temi. Entità come i CRAS ricoprono, perciò, un ruolo importante su più fronti: da una parte, svolgono un’attività essenziale di tutela e cura degli animali che, su tutto il territorio nazionale, subiscono gli effetti dell’incontro accidentale con gli umani. Dall’altra parte, come dimostra la storia del CRASE Monte Adone, questa attività sul campo rappresenta un bagaglio di esperienze che è importante condividere, anche attraverso progetti educativi, per aumentare la sensibilità e la consapevolezza sul nostro rapporto con il mondo naturale e i suoi abitanti.