Belgrado: statua di Karađorđe, leader della rivolta serba contro i turchi; sullo sfondo la chiesa di San Sava. Foto di Petar Milošević
L’interesse prioritario dell’Italia e dell’Europa è la stabilità democratica del nostro Estero Vicino. I Balcani sono il nostro Estero più Vicino. Ci separa un breve tratto di mare, ci unisce un’intensità speciale di relazioni umane e di connessioni storiche e sociali. Il Veneto, in particolare, si trova a pochi chilometri da quelle terre, ove l’intera costa oltre-Adriatico ci ricorda i fasti del passato veneziano nel colore bianco della pietra d’Istria, nelle architetture di città e villaggi, e non ultimo nel costume delle minoranze italiane rimaste oltre-confine dopo la Seconda Guerra. Ce ne siamo accorti negli anni ’90, quando una grande crisi ha investito la regione, cogliendoci quasi di sorpresa. Schiere di profughi alle nostre frontiere. Abbiamo allora mobilitato l’intero apparato nazionale, europeo e internazionale, politico, diplomatico, economico, finanziario, militare, per soccorrere i nostri vicini e aiutarli a superare una fase buia della loro storia. Un impegno senza precedenti, la cui chiave di volta è stata la prospettiva di integrazione nella grande famiglia europea, sancita fin dal giugno 2003 al vertice UE di Salonicco. L’opera rimane incompiuta, non tutti i Paesi nati dalla disintegrazione dell’ex-Jugoslavia sono membri dell’Unione Europea, non tutti hanno intrapreso la via delle riforme per acquisire i necessari standard politici ed economici, non tutti hanno superato i traumi delle guerre, pulizie etniche, violenze.
Oggi il nostro impegno continua, e l’Unione Europea ha messo in atto una politica di cooperazione e di associazione per facilitare questo tragitto. Ma i negoziati di adesione all’Europa vanno a rilento, le riforme tardano, e la stessa Europa pare affetta da una sorta di ‘Balkan fatigue’, che ne attenua la volontà politica specie in quei Paesi membri che sono più lontani dallo scacchiere balcanico e rivolgono la loro attenzione ad altre priorità. Restano irrisolti in particolare i seguiti degli Accordi di Dayton per la Bosnia (1994), che ebbero il merito di portare alla fine delle ostilità, sancendo però una complessa architettura istituzionale che non si dimostra funzionale alla normale vita del Paese e inoltre non ha attenuato le tensioni secessioniste della parte serba; e la questione Serbia-Kosovo, dominata dal contrasto sull’indipendenza del Kosovo (2008) che i serbi considerano la culla della propria identità spirituale sottratta loro con i bombardamenti NATO su Belgrado nel 1999. Ad oggi, Serbia e Russia – ma anche cinque Stati membri della UE – non riconoscono il Kosovo come Stato indipendente.
Facciamo un passo indietro per capire meglio. La dissoluzione dell’ex-Jugoslavia negli anni ’90 ha origini esterne ed interne. Ai tempi della Guerra Fredda, la Jugoslavia fungeva da Stato-cuscinetto tra Est e Ovest, tra Patto di Varsavia e Nato, un ruolo ben interpretato da Tito con la creazione del Movimento dei Non Allineati; una volta collassata l’URSS, questo ruolo viene meno. Sul piano interno, emergono nel contesto istanze indipendentiste dei popoli ex-jugoslavi, inclusi gli albanesi del Kosovo, e Belgrado, che dopo aver tentato una rafforzata centralizzazione del potere ripiega sul ‘piano B’ per recuperare le minoranze serbe rimaste tagliate fuori dalla madrepatria serba. La Serbia di Milosevic si imbarca così in una serie di guerre, la più cruenta in Bosnia. L’idea sottostante propugnata da Milosevic è la ‘Grande Serbia’, molto simile a quella praticata oggi dalla Russia: ‘Ruskij Mir’, il Mondo Russo sotto un’unica bandiera.
Oggi, che appena oltre i Balcani è esplosa la crisi ucraina, non possiamo non scorgere la vulnerabilità cui i Paesi non ancora integrati nell’Unione Europea sono esposti, con particolare riferimento alle due questioni sopracitate, e più in generale a un processo di adesione che rimane incompiuto. Peraltro, il rallentamento subito dal processo non fa che esacerbare le conflittualità interne, determinare una disaffezione delle opinioni pubbliche, comprimere la collaborazione sui grandi temi della lotta al cambiamento climatico su cui invece esse sono molto sensibili. Nel mentre si affacciano in area altri grandi protagonisti che per ragioni storiche o geopolitiche coltivano ambizioni di influenza. In primis la Russia, che negli anni ’90, pur con difficoltà, agì in armonia con l’Occidente, forse per accreditare la sua nuova statualità presso la Comunità Internazionale, e che ora coltiva assiduamente le istanze più radicali dei serbi di Belgrado e di Bosnia sulla base vuoi delle tradizionali assonanze pan-slave e ortodosse, traendo vantaggio da un lato dalle forti connessioni economico-energetiche, dall’altro dalle memorie negative dei bombardamenti della Nato. Non va in principio escluso che le iniziative di Mosca si estendano a questi Paesi, fomentando turbolenze e frustrazioni mai sopite. Non a caso la vicenda del Kosovo viene citata da Mosca, come il leader kosovaro Alben Kurti ha recentemente osservato, come argomento per giustificare la sua politica egemonica in Ucraina. Né va sottovalutata la Cina, che tramite il grande progetto della Via della Seta penetra nel territorio finendo per creare un’imbarazzante dipendenza finanziaria: valga per tutti il caso del Montenegro, che ha rischiato di indebitarsi al punto di cedere a Pechino il controllo di infrastrutture finanziate con fondi cinesi. E non va nemmeno sottaciuta l’ambizione di Ankara di esercitare la propria influenza in nome del passato ottomano, e la sua abilità nel reperire compromessi con Mosca come fatto in Siria o in Libia.
Tutto ciò milita a favore del fatto che l’Europa torni urgentemente a concentrarsi sui Balcani. La crisi aperta da Putin in Ucraina dovrebbe schiudere una nuova pagina di rinnovato impegno europeo, a partire da un’accelerazione dei negoziati di adesione, prima che alcuni Paesi cadano nell’orbita di altri protagonisti internazionali e prima che altre violenze investano l’area. Per ora l’Europa si è limitata a rafforzare di 500 unità le forze UEFOR di mantenimento della pace in Bosnia. Ma lo stato di incertezza, o di ‘precario equilibrismo’, prevalente in questa parte dei Balcani trova conferma nel voto favorevole espresso dalla Serbia in occasione della Risoluzione dell’ONU del 3 marzo, che condanna l’aggressione russa e chiede il ritiro delle armate russe, e nella contestuale mancata applicazione delle sanzioni sancite dall’Unione Europea, e nel voto analogo della Bosnia nel contesto di vistose manifestazioni di dissenso della componente serbo-bosniaca.
Priorità alla sicurezza del Vicinato europeo è peraltro il tema ricorrente nella consultazione sul Futuro dell’Europa avviata da Bruxelles da qualche mese con lo scopo di dare voce ai cittadini europei. Emerge un’opinione largamente condivisa che l’Europa, pur sempre generosa negli aiuti umanitari e in genere nell’elargizione di fondi, non riesca tuttavia ad incidere nei processi politici e di sicurezza che la riguardano direttamente, non riesca cioè ad esprimere tutte le sue potenzialità per una proiezione esterna efficace e di primo piano. La crisi degli anni ’90 nei Balcani fu gestita, va riconosciuto, anche grazie alla leadership americana e all’acquiescenza della Russia di allora. Ma ora? Ora che Washington affida sempre più all’Europa la sicurezza del suo Vicinato, ora che la Russia è animata da un forte revanscismo antagonista, ora che le guerre tornano ad infestare il nostro Continente con il corredo della negazione dei valori e dei principi di legalità sui quali abbiamo edificato la costruzione europea e che le insidie si moltiplicano, sono in molti a ritenere imperativo dotarsi di una politica di sicurezza e difesa idonea a fronteggiare la sfida. Uno sviluppo che deve necessariamente poggiare su una strategia di politica estera condivisa, anche sostituendo la regola dell’unanimità con il voto a maggioranza qualificata, e auspicabilmente puntare a un livello di maggiore integrazione dell’Europa stessa. Un modo per scongiurare che i Balcani vengano travolti da una nuova devastante ondata di violenza e di esodi, rilanciando il processo di adesione. E riconoscendo, dunque, che consolidamento delle istituzioni europee e allargamento dell’Unione possono rivelarsi parte di un unico progetto.