SCIENZA E RICERCA

Flamigni, medico intellettuale

Per capire chi è stato Carlo Flamigni si può cominciare dal suo sito web. Oggi aperto ai ricordi come un registro delle condoglianze virtuale, vi si leggono le storie molto reali delle pazienti e delle famiglie che il professore ha assistito in questi decenni. Il rischio è di non uscirne più.

“Grazie per aver donato la vita a mia moglie Federica, ora madre di un bimbo splendido”, “Ho la gioia di avere due nipoti grazie a lei”, “Proprio oggi guardando le nostre figlie Emma, Sofia e Giorgia andare in bicicletta pensavamo a lei ed alla felicità che ci ha aiutato a raggiungere”. Sono storie di persone che, senza la fecondazione assistita, semplicemente non sarebbero qui tra noi. E poi ci sono quelle di chi avrebbe una vita meno felice: “Grazie per avermi curato in tutti questi anni, grazie per avermi fatto dimenticare la malattia, con la Sua competenza e il Suo sorriso”.

Ma ci sono anche le storie degli allievi: “Correva l'anno 1977 e Bologna ribolliva. Io frequentavo la clinica del prof. Flamigni e lui fu il mio relatore di laurea. Per preparare la tesi andai un paio di volte a casa sua alla sera, ai piedi delle colline bolognesi. I computer e l'infografica non c'erano, e facevamo i grafici con la carta millimetrata, la matita e il righello. Gli piaceva usare il termine "compagno". Addio e grazie, compagno prof.”.

C’è il Flamigni privato, il Flamigni didatta e il Flamigni clinico. Il Flamigni ginecologo, semplicemente. E soprattutto, per tutti, c’è il Flamigni delle battaglie di laicità, e anche quello delle “polemiche” a cui è dedicata una pagina del sito web. C’è, cioè, con Carlo Flamigni, una lunga storia di medicina nel suo significato più alto: quello della “scienza sociale”, come scrisse il padre della patologia cellulare Rudolf Virchow nel 1848. Una medicina che non si esaurisce negli ambulatori e nel confronto col paziente, ma che si confronta con la società, e la costruisce.

Carlo Flamigni viene oggi ricordato soprattutto come padre (o “papà”, perché siamo in un ventunesimo secolo dégagé) della fecondazione assistita. La importò in Italia e si batté per renderla disponibile a chi ne aveva bisogno. Ma è stato molto di più. Per lui la ginecologia non si esauriva nella storia clinica della singola paziente. Perché si parla di riproduzione, quindi di diritti delle donne e delle persone, e, in ultima analisi, di quello che tiene in piedi e garantisce il futuro della nostra collettività. Così con Flamigni ci sono state le battaglie per la contraccezione, per la liceità dell’aborto e alla procreazione medicalmente assistita, contro l’orrenda legge 40 del 2004 che è stata nel tempo sgretolata. Ma anche le battaglie per il cosiddetto fine vita. Un’attenzione all’etica da vero laico, la sua, aperto al confronto senza inquinamenti ideologici o convinzioni dogmatiche. Parlava infatti di “isola degli stranieri morali”, un posto dove convivere tra cittadini con idee radicalmente diverse ma capaci di stare in pace e di non rompersi le scatole a vicenda.

E poi, tecnicamente, Flamigni è stato direttore della Clinica ostetrica e ginecologica dell’università di Bologna, figura di riferimento per la comunità medico scientifica italiana e mondiale. È stato membro del Comitato nazionale di bioetica dal 1990 al 2017 ed era socio onorario della Consulta di bioetica e membro del Comitato di etica dell'università Statale di Milano. Ha scritto anche numerosi libri (scientifici, saggi, e di narrativa, compresi racconti polizieschi e per ragazzi).

Infine, Flamigni era forlivese, come Giovanni Battista Morgagni, “sua maestà anatomica”, che Virchow stesso definì il fondatore dell’anatomia patologica: uno dei medici più importanti della storia a cui dobbiamo l’idea (nel Settecento non così scontata) che la pratica clinica non può prescindere dallo studio delle sedi e delle forme della malattia, cioè da quella che oggi chiamiamo propriamente “patologia”. E Flamigni, all’età di 87 anni, è morto nell’ospedale forlivese che oggi a Morgagni è dedicato.

Chi scrive questo articolo non lo ha mai incontrato di persona, ma lo ha letto e intervistato più volte, come a tanti altri colleghi giornalisti è capitato di fare, soprattutto sui temi della bioetica sui quali era un gigante. Ma, da laureata in medicina, lo ha apprezzato anche personalmente, come medico intellettuale. Voglio scriverlo proprio così: “medico intellettuale”, senza la congiunzione. Perché la medicina “scienza sociale” funziona bene quando butta il naso fuori dalla corsia ospedaliera e lo infila in una biblioteca, in un’assemblea, nelle case degli altri, e poi in una giunta comunale, in un comitato di bioetica, tra le pagine dei giornali. E infine, persino, in un dibattito alla tv.

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