SOCIETÀ

La fragile Bosnia e le spinte secessioniste dell'etnia serba

La sfida russa all’Occidente non si sta realizzando soltanto in Ucraina: c’è un altro fronte, nel cuore dei Balcani, che potrebbe essere sul punto di esplodere. Siamo in Bosnia-Erzegovina, nazione dall’equilibrio fragilissimo, nata nel suo assetto attuale nel 1995 con gli Accordi di Dayton che posero fine alla devastante guerra etnico-religiosa scoppiata nel 1992, stabilendo una complessa convivenza tra le tre più importanti componenti etniche, linguistiche e religiose del Paese: i bosgnacchi (musulmani), i croati (cattolici) e i serbi (ortodossi). Tre etnie, tre presidenti. Che convivono all’interno di due differenti e prevalenti entità territoriali: la Federazione della Bosnia ed Erzegovina (abitata in prevalenza da bosniaci musulmani e croati) e la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (la cosiddetta “Repubblica Srpska”), abitata in prevalenza da serbi. Più un terzo territorio, autonomo, assai più piccolo, chiamato distretto di Brčko. E le azioni di governo a livello nazionale richiedono il consenso di tutti e tre i gruppi etnici. Per dire quanto è sentita la divisione etnica: uno dei requisiti per essere eletti presidenti è la dichiarazione esplicita di appartenere a una delle principali etnie: bosgnacchi, serbi o croati. Chi anche si dichiarasse genericamente “bosniaco” (dunque cittadino della Bosnia-Erzegovina) non potrebbe essere eletto. Ebbene, questo instabile equilibrio (in un paese divorato dalla corruzione e dalla disoccupazione, oltre a essere attraversato dai migranti in transito sulla “rotta balcanica”) rischia ora di crollare sotto la spinta del nazionalismo sempre più esasperato dei serbi. Il loro leader, Milorad Dodik, membro serbo della presidenza tripartita della Bosnia-Erzegovina (BiH), nonché presidente del partito indipendentista SNSD (Alleanza dei socialdemocratici indipendenti), ha impresso un’accelerazione senza precedenti sulla via della secessione, passando dalle parole ai fatti, sfidando il governo centrale con toni, e propositi, mai usati prima.

Esercito serbo e magistratura autonoma

È stato lo stesso Milorad Dodik ad annunciare una serie di decisioni prese pochi giorni fa dall’Assemblea nazionale della Republika Srpska: l’intenzione di non partecipare più alla formazione delle forze armate e di dar vita a un esercito autonomo serbo; la creazione di un’amministrazione locale per la gestione e la riscossione delle imposte indirette. E infine, l’avvio della discussione di un disegno di legge che prevede la costituzione di un Consiglio Superiore della Magistratura serbo (e di una Procura) in pieno conflitto con il corrispondente organismo nazionale. L’eventuale approvazione (il testo dovrebbe essere discusso entro 90 giorni) darebbe vita a un’istituzione priva di qualsiasi legittimità costituzionale. In realtà le tensioni erano aumentate la scorsa estate, a luglio, quando Valentin Inzko, l’ex Alto rappresentante per la Bosnia-Erzegovina, aveva introdotto una modifica al codice penale bosniaco, prevedendo il carcere per quanti negano il genocidio di Srebrenica e osannano i criminali di guerra. La reazione dei rappresentanti serbi era stata immediata e compatta: boicottaggio totale dei lavori delle istituzioni federali. Una misura revocata lo scorso 1 febbraio, consentendo nuovamente ai rappresentanti serbo-bosniaci di partecipare nuovamente alle sessioni delle istituzioni centrali: parlamento, governo e presidenza tripartita. Ma a una condizione: che tutte le decisioni delle istituzioni centrali siano sottoposte al riesame dei legislatori della Republika Srpska. E con la presentazione di un disegno di legge per vietare “l’abuso del termine genocidio”.

Del resto Milorad Dodic non fa mistero delle proprie convinzioni: sostiene apertamente che il genocidio di Srebrenica “non ha mai avuto luogo”, mentre continua a incitare folle di sostenitori nazionalisti che negli ultimi mesi hanno sfilato minacciosi in diverse città della Republika Srpska, cantando canzoni nazionaliste e celebrando Ratko Mladic, il generale serbo-bosniaco condannato all’ergastolo per genocidio dal Tribunale Internazionale dell’Aia proprio perché ritenuto responsabile del massacro (e l’estate scorsa si è visto respingere il processo d’appello). Secondo il Washington Post, che alla crisi bosniaca ha dedicato pochi giorni fa un approfondimento, quello di Srebrenica «è uno dei genocidi più accuratamente documentati al mondo. Gli investigatori hanno trovato una scena del crimine che si estendeva per circa 40 miglia attraverso la Bosnia orientale, con epicentro a Srebrenica, una città mineraria che era diventata un punto di raccolta per circa 40.000 profughi bosniaci musulmani durante la guerra. Le Nazioni Unite avevano affermato che l’area era una zona sicura, installando forze di pace per tenere a bada l’esercito serbo-bosniaco. Ma l’esercito, comandato dal "Macellaio di Bosnia" Ratko Mladic, si è presentato comunque e ha preso il controllo con facilità. Gli ufficiali serbi separavano le donne dagli uomini e dai ragazzi. Uomini e ragazzi venivano portati sui luoghi delle esecuzioni. Le persone che hanno cercato di scappare sono state uccise da carri armati e mitragliatrici». Le vittime furono oltre diecimila.

Il disegno del Cremlino contro Nato e Unione Europea

Milorad Dodik è legato a doppio filo con Vladimir Putin, che ne sostiene le mosse, che fomenta e finanzia le frange più nazionaliste dei serbi-bosniaci. E Dodik non ne fa mistero, anzi “indossa” l’amicizia con il Cremlino come fosse una medaglia: «Quando vado da Putin, non ci sono richieste. Dice solo “in cosa posso aiutare?” Di qualunque cosa gli abbia parlato, non sono mai stato ingannato». L’ultimo incontro pochi mesi fa, alla fine di novembre, quando già la Russia muoveva le sue truppe ai confini con l’Ucraina. Al suo ritorno, Dodik ha dichiarato spavaldo: «Se qualcuno cercherà di fermarci, abbiamo amici che ci difenderanno». Lunedì scorso, a poche ore dall’invasione dell’Ucraina, Vladimir Putin ha inviato a Belgrado il suo principale inviato per la sicurezza nei Balcani, Nikolai Patrushev, per colloqui con il presidente serbo Aleksandar Vucic. Non è un caso. Non ha dubbi Andrea Margelletti, analista politico e presidente del Centro Studi Internazionali: «L’Ucraina è già caduta, ora Putin attaccherà i Paesi Baltici. Il presidente russo sta lavorando a questa guerra da almeno due anni e mezzo, contando sul fatto che l’Europa non reagirà».  Lituana, Estonia e Lettonia potrebbero essere i prossimi obiettivi. Scriveva Foreign Policy in un’accurata analisi pubblicata lo scorso novembre: «Il Cremlino ha identificato i Balcani occidentali come un terreno di gioco ideale per le sue operazioni di influenza e provocazione politica: non è così difficile sconvolgere e destabilizzare. La regione è stata trasformata in una scacchiera virtuale, sulla quale la Russia vuole esercitare influenza e competere con l’UE e gli Stati Uniti. Per molti anni la Russia ha trattato l’UE come un club politico rispettabile ma per lo più innocuo. La situazione è cambiata radicalmente dopo il 2014. Al vertice del partenariato orientale tenutosi a Vilnius, in Lituania, nell’autunno del 2013, l’UE ha firmato accordi speciali con Georgia e Moldova e nel giugno 2014 con l’Ucraina. Da quel momento in poi, la Russia ha iniziato a vedere l'Unione Europea come la Nato, come un nemico». Quanto a Dodik: «Da solo, non è importante. La sua arroganza, la sua rilevanza, dipendono puramente dal sostegno russo. Oggi Dodik non è più solo una pedina della politica serba. Invece, tiene in ostaggio la politica serba».

Talmente in ostaggio da compiere un passo deciso (e probabilmente decisivo) verso la secessione. Il che ha scatenato reazioni e preoccupazioni. La Procura bosniaca ha immediatamente aperto un’inchiesta per “attentato all’ordine costituzionale”. Josep Borrell, Alto rappresentante dell'Unione Europea per gli affari esteri, ha detto che «l’UE è pronta a utilizzare tutte le misure disponibili qualora la situazione lo richiedesse». Lunedì scorso, al termine di una riunione dei ministri degli esteri dei paesi membri, ha aggiunto: «La retorica nazionalista e separatista sta aumentando in Bosnia-Erzegovina e mette a repentaglio la stabilità e persino l’integrità del Paese. I ministri dovranno prendere una decisione su come fermare queste dinamiche ed evitare che il Paese possa andare in pezzi. Questa è una situazione critica». L’unica strada che l’Unione Europea potrebbe decidere di percorrere è quella delle sanzioni, ostacolate tuttavia dall’opposizione dichiarata di alcuni paesi (Ungheria, Slovenia, Croazia): e in assenza di unanimità la politica estera dell’Unione Europea rimane pura teoria. Anche gli Stati Uniti, il mese scorso, erano passati alle vie di fatto imponendo sanzioni nei confronti del leader serbo-bosniaco, accusato di “attività corruttive e destabilizzanti”: il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha dichiarato che le misure fanno parte di un piano per ritenere responsabili coloro che «minano la stabilità della regione dei Balcani occidentali attraverso la corruzione e le minacce agli accordi di pace di lunga data». La replica di Dodik, al solito, è stata sprezzante: «Se pensano di spaventarmi in questo modo, si sbagliano di grosso».

Le prossime settimane saranno decisive per capire se la strada intrapresa dai nazionalisti serbi è irreversibile, come oggi appare. E molto dipenderà dalla capacità di reazione proprio dell’Unione Europea, che ieri, a poche ore dall’invasione russa in Ucraina, ha deciso di raddoppiare la presenza della forza di pace in Bosnia, inviando 500 riservisti come misura precauzionale “per scongiurare qualsiasi possibile instabilità”. Singolare peraltro il tempismo e la sincronia del precipitare delle due crisi. Con la guerra in Ucraina, prima a lungo minacciata, poi realizzata, a far quasi da “scudo mediatico” a quanto sta avvenendo in Bosnia-Erzegovina, come se si trattasse di una crisi minore (e al momento che si tratti di un pericolo inferiore non c’è dubbio). Ma resta il disegno complessivo. La sfida sempre più spudorata della Russia all’Occidente, per frenare qualsiasi espansione a Est dell’Unione Europea e della Nato, scommettendo sul fatto che, almeno militarmente, non troveranno opposizione. La Bosnia-Erzegovina è il prossimo tassello: la sua adesione alla Nato era stata già bloccata nel 2017 dai nazionalisti serbo-bosniaci in nome di una “neutralità”, in linea con la Serbia. E l’ambasciata russa, ancora lo scorso marzo, aveva scritto in una nota:  «L’avvicinamento della Bosnia alla Nato sarebbe un atto ostile: in quel caso, il nostro paese dovrà reagire». Lo stesso Dodik, in una conferenza stampa tenuta ieri a Sarajevo, ha rimarcato il merito di non aver consentito l’ingresso della Bosnia nell’Alleanza Atlantica: «A quest’ora – ha detto – i nostri soldati sarebbero dovuti andare in Ucraina a fare la guerra».

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