SCIENZA E RICERCA

Frane e alluvioni, fenomeni con cui è necessario saper convivere

Nei giorni scorsi fenomeni atmosferici particolarmente intensi hanno interessato l’Italia. Forti piogge e grandinate hanno colpito il Nord-Est del nostro Paese, provocando danni al territorio: in Veneto si è assistito a un violento nubifragio; in Trentino hanno avuto luogo esondazioni dei fiumi Adige e Isarco, causando l’interruzione del traffico autostradale e ferroviario. In Friuli Venezia Giulia i vigili del fuoco sono intervenuti in seguito ad allagamenti, frane, tetti scoperchiati e caduta di alberi.

Si tratta di eventi meteorologici estremi, che negli ultimi anni sembrano essere sempre più frequenti. Basti pensare, solo per fare un paio di esempi noti, alla straordinaria acqua alta a Venezia nell’autunno del 2019, la seconda marea più alta della storia (187 centimetri), sostenuta da raffiche di vento che hanno superato i 100 km/h. O, ancora, all’uragano Vaia nell’ottobre del 2018 con venti che hanno superato i 200 km/h e si sono abbattuti sui versanti e nelle valli del nord Italia, colpendo 494 municipalità tra Veneto, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Lombardia e, in modo più marginale, Valle d’Aosta e Piemonte.

Frane e alluvioni non sono fenomeni desueti in Italia. Stando ai dati di una recente indagine condotta dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) sul Dissesto idrogeologico in Italia: pericolosità e indicatori di rischio – Edizione 2018, il 91% dei comuni italiani (7.275) sono a rischio per fenomeni di questo tipo: 1,28 milioni di abitanti sono a rischio frane e oltre 6 milioni a rischio alluvioni. Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Lombardia, Veneto e Liguria sono le regioni in cui la popolazione è maggiormente a rischio. E ancora, su 14,5 milioni di edifici, 550.723 (3,8%) sono collocati in aree a pericolosità da frana elevata o molto elevata, mentre quelli che sorgono in zone allagabili nello scenario medio (tempo di ritorno tra 100 e 200 anni) sono 1.351.578 cioè il 9,3%. Infine, le industrie e i servizi ubicati in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata sono quasi 83.000 con 217.608 addetti esposti a rischio. Il rapporto parla anche dei beni culturali: “L'Italia è uno straordinario museo all'aperto con 53 siti Unesco e oltre 200.000 beni architettonici, monumentali e archeologici". Ebbene, sono 11.712 i beni culturali potenzialmente soggetti a fenomeni franosi nelle aree a pericolosità elevata e molto elevata, e raggiungono il numero di 37.847 se si calcolano anche quelli situati nelle zone a minore pericolosità. I monumenti a rischio alluvioni sono 31.137 nello scenario a pericolosità media e raggiungono i 39.426 in quello a scarsa probabilità di accadimento o relativo a eventi estremi.

Guarda l'intervista completa a Nicola Surian, vice-direttore del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova. Montaggio di Elisa Speronello

Sicuramente i cambiamenti climatici in atto – sottolinea Nicola Surian, vice-direttore del dipartimento di Geoscienze dell’università di Padova – stanno rendendo più frequenti questi fenomeni, e quindi bisogna tenerne conto. Già da anni frane ed eventi alluvionali sono in qualche modo più intensi e più frequenti, ma non possiamo attribuire tutto ai fattori climatici. Sono fenomeni assolutamente comuni per un territorio come quello italiano, il cambiamento climatico non può fare altro che accentuarne l’intensità e, in parte, la frequenza”. L’urbanizzazione è un altro fattore da considerare, che può contribuire a incrementare il rischio idrogeologico nel nostro Paese. La Liguria, per esempio, è un territorio che frequentemente balza agli onori della cronaca per eventi alluvionali. Frane e allagamenti sono eventi che caratterizzano il territorio italiano, per la sua conformazione geologica, morfologica e idrogeologica, e rientrano nella naturale evoluzione di un ambiente di questo tipo. Le frane, per esempio, sono un fenomeno molto diffuso in Italia, più che in altri Paesi europei. Dunque, quando l’urbanizzazione non riesce a coesistere con eventi di questo tipo, sorgono le criticità.

A fronte di questa situazione esistono, tuttavia, azioni che possono essere intraprese, in grado di ridurre il rischio idrogeologico. Di pianificazione, innanzitutto. I distretti idrografici, spiega Surian, mettono a punto piani di gestione del rischio idrogeologico, che vengono aggiornati ogni sei anni e, in questo momento, sono in fase di definizione quelli per il 2021-2027. Importanti sono anche le conoscenze che derivano dalla ricerca scientifica, utile a comprendere questi processi e le azioni di mitigazione del rischio più idonee (tra cui anche interventi strutturali). Le azioni di monitoraggio, infine, possono fornire informazioni in tempo reale dell’evoluzione di determinati fenomeni, specie quelli a maggiore impatto e criticità. Senza contare che anche la previsione di questi eventi si è affinata nel corso degli anni.  

Un elemento base è la mappatura del rischio: per quanto riguarda le alluvioni, per esempio, vengono mappate le aree che potenzialmente possono essere inondate con diverse frequenze, tempi di ritorno, con probabilità diverse, con piene che possono avere una frequenza di 30-100-300 anni, alcune dunque altamente improbabili, ma che statisticamente possono verificarsi. E poi, all’interno dei piani di gestione, vengono indicati anche anche quali interventi mettere in atto per mitigare il rischio idrogeologico”.

Il docente entra poi più nel merito. “Se parliamo di corsi d’acqua di grandi dimensioni possono essere adottati interventi strutturali anche piuttosto importanti. Dopo le piene del 2010 che hanno interessato molti corsi d’acqua, per esempio del Veneto, è stata realizzata a nord di Vicenza una cassa di laminazione che ridurrà le piene del Bacchiglione. Per i corsi d’acqua montani invece, di più piccole dimensioni, ci sono diversi interventi che si possono attuare: da un lato, anche in questo caso, opere strutturali (può esservi la necessità di ridurre l’apporto di sedimenti che localmente può creare criticità), dall’altro però anche interventi non strutturali, che inducono a ripensare e ripianificare il territorio”. Cercare di dare maggior spazio a un corso d’acqua, individuando delle aree dove possa esondare – specie nei territori meno antropizzati che consentono ancora di farlo – ne è un tipico esempio.

Secondo Surian serve una maggiore conoscenza di queste tematiche da parte della popolazione. Il cittadino deve essere a conoscenza che certi fenomeni, come frane e alluvioni, esistono e sono dei processi naturali che non è possibile eliminare dal nostro territorio. Il rischio può essere ridotto se vengono messi in atto una serie di interventi, ma in molti casi non può essere eliminato. Ed è necessario saperci convivere. “È importante conoscere i rischi che derivano dal proprio territorio, quanto certe zone siano più critiche rispetto ad altre. Serve un’educazione in questo senso, perché potrebbe essere di grande aiuto nella gestione complessiva del rischio”. E non va dimenticato nemmeno, secondo il docente, il divario esistente tra sviluppo di conoscenze sull’argomento e trasferimento di tali conoscenze nella gestione del rischio idrogeologico: se alcuni enti e istituzioni, infatti, hanno ormai adottato un approccio moderno, altri sono tuttora ancorati a concezioni ormai superate.

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