SCIENZA E RICERCA

Il fuoco nell’Antropocene: rischio o risorsa?

Il fuoco è, fin dalla notte dei tempi, un elemento essenziale per l’umanità: secondo alcuni, ad esempio, è proprio grazie alla scoperta e, in seguito, alla dominazione del fuoco che si avvia quel processo di encefalizzazione (cioè di aumento delle dimensioni dell’encefalo) che porrà le basi per la rivoluzione cognitiva. Il fuoco, dunque, ha un ruolo centrale nel nostro percorso per diventare umani.

Ma il fuoco è ambivalente: è tanto necessario per la vita quanto capace di distruggerla. E, inoltre, il nostro utilizzo sconsiderato del fuoco (ancora oggi, nelle nostre società tecnologicamente avanzate, ogni fonte di energia è alimentata, anche se indirettamente, da un fuoco che brucia da qualche parte) ha determinato conseguenze disastrose non solo per l’uomo, ma anche per la natura che lo circonda.

Una Review apparsa su Science propone un’articolata ed esaustiva analisi della relazione tra fuoco, ecosistemi e biodiversità nell’Antropocene, l’attuale epoca geologica, nella quale l’uomo ha assunto il ruolo di fattore ecologico dominante. Il lavoro, ricco di dati e di esempi, sottolinea come il continuo incremento delle attività umane abbia determinato, in diverse parti del mondo, un’alterazione del normale regime degli incendi, modificando così i delicati equilibri tra fuoco ed ecosistemi. Il mutamento a cui gli autori dello studio accennano non consiste in un aumento lineare nella numerosità e nell’intensità degli incendi: in molti ambienti, infatti, la ciclicità degli incendi è fondamentale per mantenere in salute l’intero ecosistema, e il problema sorge quando – ad esempio, in seguito a modificazioni climatiche – questi incendi vengono a mancare.

Quello tra ecosistemi, fuoco ed essere umano è, dunque, un rapporto complesso ma indissolubile. A sottolinearlo è il professor Stefano Mazzoleni, docente di Ecologia applicata e Modellistica al dipartimento di Agraria dell’Università di Napoli Federico II ed esperto di Ecologia del fuoco, che afferma: «L’uomo ha spesso intrattenuto, fin dai tempi preistorici, un rapporto conflittuale con l’ambiente naturale; allo stesso tempo, però, vi sono anche numerosi esempi che mostrano una realtà diametralmente opposta, cioè la capacità, sviluppata soprattutto da alcune popolazioni, di convivere pacificamente con la natura. In entrambi i casi il fuoco riveste una grande importanza: esso, infatti, può essere usato per distruggere l’ambiente pur di ottenere le risorse necessarie per vivere, oppure può essere impiegato come strumento di pacifica ed equilibrata coabitazione con gli altri viventi all’interno di un’ecosistema. In tal modo si realizza un vero e proprio processo di coevoluzione fra l’uomo e le altre componenti dell’ecosistema, processo nel quale le azioni umane non solo sono sostenibili, ma acquisiscono un ruolo positivo per l’economia dell’ambiente stesso».

L’entità dell’impatto umano sull’ambiente, dal paleolitico ad oggi, non è stata costante, ma è stata invece caratterizzata da ricorrenti periodi di accelerazione e intensificazione, risalenti a ben prima dell’età contemporanea. «Già gli antichi Romani – afferma Mazzoleni – furono responsabili di una vasta atività di deforestazione; inoltre, gran parte dei paesaggi che oggi consideriamo naturali sono in realtà “paesaggi secondari”, frutto di un prolungato intervento dell’uomo.

Dopo la seconda guerra mondiale, tuttavia, con l’avvento dell’industrializzazione, l’impatto delle attività umane ha assunto dimensioni fino a quel momento sconosciute. L’estesa urbanizzazione e l’abbandono delle aree rurali, con il conseguente crollo delle economie agropastorali, hanno modificato velocemente i rapporti tra uomo e natura. Bisogna tuttavia valutare il fenomeno non solamente nella sua dimensione macroscopica, ma comprendendone i molteplici e diversificati effetti su scala locale. Da un punto di vista “cittadino”, si mette a fuoco più facilmente l’effetto di diretta distruzione della natura. Dobbiamo però tenere presente che, parallelamente a questo fenomeno, anche le zone rurali che vengono abbandonate subiscono una modificazione: la rinaturalizzazione cui vanno incontro comporta, ad esempio, un rapido e incontrollato aumento della biomassa vegetale, che diventa un perfetto combustibile. Le zone abbandonate, dunque, dopo un primo periodo in cui, per via dell’assenza umana, vivono una diminuzione degli incendi, divengono – ed è un’evidenza molto controintuitiva – maggiormente soggette a fenomeni di combustione di grande intensità e con una frequenza più diradata nel tempo».

L'intervista completa a Stefano Mazzoleni. Montaggio di Elisa Speronello

Molto importante, e sottolineato anche nello studio di Science, è il rapporto fra l’incidenza degli incendi e l’aumento delle temperature medie globali: secondo gli autori del report, infatti, tra questi due fenomeni vi è un rapporto complesso, in quanto si instaura un meccanismo di rinforzo positivo nel quale gli incendi divengono, al tempo stesso, causa e conseguenza del’innalzamento delle temperature. «Ancora una volta, è difficile individuare un collegamento lineare tra i due fenomeni», spiega Mazzoleni. «Proprio la complessità degli eventi correlati al cambiamento climatico determina la non linearità degli effetti che essi producono. Se si prende in considerazione solo l’aumento delle temperature, certamente si può individuare una correlazione con l’aumento del numero e della gravità degli incendi; se tuttavia si tiene conto anche di altri effetti dell’instabilità climatica, come l’aumento di fenomeni legati all’acqua – come l’alterazione della portata e della distribuzione stagionale delle precipitazioni o l’incidenza di fenomeni estremi come uragani e alluvioni – la correlazione tra cambiamento climatico e incendi si fa meno diretta. In alcuni casi, tutto questo riduce la possibilità della vegetazione di bruciare regolarmente, con la conseguenza che i pochi incendi che ancora si verificano hanno una portata distruttiva ben maggiore di quella attesa. Per comprendere il nesso causale tra incendi e crisi climatica, bisogna dunque ampliare lo sguardo su intervalli temporali estesi e riconoscere la complessità dei fenomeni studiati».

Un’ulteriore questione – forse la più importante – riguarda il modo in cui l’alterazione del regime degli incendi influisca sulla biodiversità degli ecosistemi. Il fuoco, infatti, non è unicamente un pericolo, un potenziale fattore di riduzione della biodiversità: in molti casi ne è regolatore, e ne favorisce la perpetuazione. Per poter affrontare adeguatamente il tema della conservazione degli ecosistemi, è dunque importante conoscere in maniera approfondita il loro funzionamento e la loro correlazione, spesso simbiotica, con gli incendi. Mazzoleni afferma: «Spesso si dà degli incendi una connotazione unicamente negativa, sottolineando il loro effetto distruttivo sugli habitat. In una prospettiva di ecologia del fuoco, un simile approccio è quantomeno riduttivo: il fuoco ha effetti tanto dannosi quanto benefici, e non bisogna trascurare questa complessità. Molte specie approfittano dell’evento di combustione per occupare le nicchie ecologiche liberate dalle specie precedenti: è molto probabile, cioè, che si verifichi un fenomeno definito “successione secondaria post-incendio”. Quel che da un punto di vista umano può essere considerato un evento devastante, che può portare con sé anche ingenti danni economici, da un punto di vista ecosistemico può essere visto, invece, come un evento fisiologico, addirittura positivo, che può anche innescare un aumento locale di biodiversità».

Tale divergenza fra il benessere della società umana e il benessere dell’ecosistema genera, dal punto di vista politico, una gestione a volte miope e non scientificamente corretta degli incendi. «Questo è accaduto anche in Italia – precisa il professore –, dove si è arrivati addirittura a un divieto assoluto di appiccare incendi: si tratta, però, di un divieto che non tiene conto dell’utilità e dell’importanza della pratica del fuoco controllato, che permette di mantenere pulito il sottobosco, così da ridurre al minimo il rischio che gli incendi accidentali raggiungano un’intensità tale da diventare difficilmente controllabili. Molto spesso, inoltre, si tratta di pratiche tradizionali molto utili anche per la tutela degli ecosistemi, che garantiscono di evitare l’abbandono del territorio e favoriscono la pacifica coesistenza tra l’uomo e la natura locale».

Bisogna dunque imparare a bilanciare costi e benefici di simili eventi naturali, che hanno, all’interno di un contesto ecosistemico, un’importanza decisamente non secondaria. Come suggeriscono gli autori del report dal quale abbiamo preso le mosse, il problema della corretta gestione degli incendi racchiude in sé anche molte opportunità: «Lo sviluppo di strategie e azioni che riconoscano e diano il giusto peso ai diversi valori sociali ed ecologici in gioco può non essere immediato; tuttavia, riconoscere esplicitamente i compromessi e le incertezze tra valori in competizione può contribuire a superare tale complessità».

L’impegno in tal senso dovrà essere duraturo: come sostiene Pietro Greco nel suo commento allo studio, vi sarà bisogno di uno sforzo comune sia su scala locale, sia tra i diversi livelli di governance, dal regionale al sovranazionale. Gli obiettivi dovranno essere ambiziosi: aumentare, da una parte, la resilienza dei territori e delle comunità che con essi convivono, e affrontare, dall’altra, le numerose emergenze ambientali con la dovuta tempestività, ma senza ignorare l’inevitabile complessità della condivisione, tra l’uomo e le altre specie, di un solo pianeta.

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012